REGALA TRIENNALE
Un anno di mostre, spettacoli e concerti tutti da condividere. Scegli e regala la nostra membership.
Triennale Milano
contact
Contact, frame del gioco, courtesy dell'artista

Riconoscersi nell’ignoto: intervista a Llaura McGee su Contact

1 ottobre 2022
Nell'ambito della Game Collection Vol. 2, mostra virtuale a cura di Pietro Righi Riva, presentata in occasione della 23ª Esposizione Internazionale, Giulia Trincardi parla con Llaura McGee, game designer di Dreamfeel, di cosa significa riconoscersi nell’ignoto. 
La cultura occidentale ha costruito infinite metafore del complesso rapporto di terrore che l’umanità ha con l’ignoto, spesso nella forma del mostro. Nosferatu, Frankenstein (per citare mostri illustri), ma anche  creature extraterrestri di colossal hollywoodiani come Independence Day, hanno raccontato la paura di un futuro potenzialmente disumano in modi diversi ma assolutamente paralleli: il terrore di una società capace solo di divorare, di una tecnologia incontrollabile, di una minaccia esterna invincibile. Eppure, l’incontro con l’ignoto non è  per forza spaventoso: può essere, anzi, una rivelazione pacificatoria, nel momento in cui riconosciamo in esso una parte di noi. L’alieno – in senso etimologico come ciò che è diverso da noi, e metaforicamente come creatura extraterrestre – può essere uno specchio amico, soprattutto in un mondo che stenta a riconoscerci.
Nel contesto della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, l’istituzione presenta, nella seconda edizione della Game Collection, a cura di Pietro Righi Riva, l’opera interattiva Contact, realizzata dalla designer irlandese Llaura McGee. Contact rielabora l’immaginario comune dell’incontro del terzo tipo come un ricordo archiviato nella memoria, in questo caso della  protagonista, che risuona familiare fino al giorno in cui troverà un senso ultimo di identità. Abbiamo parlato con l’autrice dei temi del gioco, di identità queer e di cosa significa riconoscersi nell’ignoto. 
Llaura McGee, game designer, courtesy dell'artista
Contact esplora l’idea di alieno come qualcosa di ignoto che, nel profondo, riconosciamo. Cosa significa per te esplorare questo sentimento? 
In quanto esseri umani, osserviamo il mondo attraverso schermi e pattern, ma anche grazie alle persone che incontriamo. Quando pensiamo allo spazio e a cosa nasconde, spesso immaginiamo gli alieni come esseri piccoli e grigi, perché il nostro immaginario è ricco di preconcetti. Eppure alieno è un termine associabile anche a piante e funghi – ultimamente faccio un sacco di ricerche sui funghi, su come comunicano tra loro nel sottosuolo – che condividono con noi un desiderio profondo di comunicazione. L’ispirazione per Contact nasce da qui. Sono cresciuta a Donegal, in Irlanda, sentendomi diversa dalle altre persone. Mi dicevano che dovevo essere in un certo modo ma per me era ingiusto, quindi pensavo che dovevano esistere altre persone che si sentivano come me. Verso la fine del gioco avviene qualcosa che ho sperimentato anch’io come persona trans, pensando alla mia vita e alle persone che ho incontrato, ovvero che le persone “strane” sanno trovarsi tra loro. È molto comune, tra persone neuro divergenti e queer, riconoscersi in un legame invisibile. Crescere in un piccolo paese è diverso dal crescere in una grande città. Dire tra sé e sé “sono gay” o “sono parte della comunità LGBT” e poterlo dichiarare pubblicamente cambia a seconda del contesto nel quale si vive. Contact è basato su una storia vera – anche se dovrei verificare alcuni dettagli con mio fratello, che forse ricorda meglio di me – , sull’incontro che ho avuto da ragazzina con due persone trans che si comportavano semplicemente come loro stesse e che ha fatto scattare qualcosa nel mio cervello. 
Più in generale, il gioco racconta la sensazione che si prova quando ci si trova, ad esempio, a un evento e notando la presenza di un’altra persona trans si sente il desiderio di parlarle – ovviamente non è sempre possibile, perché potresti metterla a disagio. Eppure pensi che possa essere un’occasione per creare una nuova connessione, vuoi saperne di più, anche se non sai perché. La metafora dell’alieno funziona anche in questo senso perché – come persone LGBT – vogliamo sapere “se c’è vita là fuori”, se in questo enorme universo c’è un senso e se quel senso è forse prendersi cura del prossimo sulla Terra. Se ragioniamo sul fatto che siamo qui, sulla Terra, in modo del tutto arbitrario e insensato, ci accorgiamo che le persone sono molto più simili una all’altra di quanto crediamo. 
Contact, frame del gioco, courtesy l'artista
Un po’ come per i funghi e le foreste che condividono profondi sistemi di radici, anche noi umani “emettiamo un’eco” quando incontriamo qualcuno con cui sentiamo di poter comunicare, che sappiamo di poter comprendere, anche se non ci abbiamo ancora interagito. 
Addirittura, capita di credere che le persone che sentiamo simili a noi ne sappiano più di noi. Quando vedo queste persone penso che mi sapranno dire esattamente cosa devo fare, e so che capita anche il contrario, dove io sono all’altro capo di questo flusso comunicativo invisibile e altre persone mi notano e pensano "lei saprà cosa dire, saprà cosa fare”. La verità, ovviamente, è che ognuno di noi sta cercando una strada. Queste due persone che ho incontrato da molto giovane sulla spiaggia mi sono apparse come aliene, come presenze  assolutamente incredibili – eppure erano solo due persone in vacanza. E non hanno la minima idea di aver ispirato un videogioco circa vent’anni anni dopo il nostro incontro.
Questi temi emergono anche in altre tue opere, giusto?
Sì, sono concetti che tornano anche nell’ultimo gioco che ho prodotto, If Found, in cui il personaggio principale lotta contro l’immagine che le altre persone hanno di lei: non solo la madre che pensa a lei come a un figlio maschio, ma anche gli amici che vogliono che lei sia per forza in un certo modo, mentre lei vuole solo essere se stessa. L’alieno di Contact è una metafora di tutto questo e di come si elaborano informazioni per cercare di dare un senso alla propria  esperienza.
Screenshot di iterazioni di Contact, durante il suo sviluppo. Courtesy dell'artista
Parlando di design, Contact è una sorta di frammento di archivio, un messaggio da elaborare nelle sue parti per comprendere una verità più profonda. Com’è avvenuto il processo di progettazione? 
Per prima cosa ho parlato con Pietro Righi Riva, che mi ha raccontato il tema della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano e mi ha chiesto se desideravo pensare a un’opera. Avevo già una versione di questa storia, ma il passaggio successivo è stato quello di chiedermi: “come la trasformo in un’opera interattiva”? Nel 2015 ho realizzato un’installazione, Fluc, in cui una o due persone entrano in una tenda e interagiscono con uno strumento che condiziona le immagini che vedono intorno a loro. Allo stesso modo, il concetto su cui mi sono mossa per Contact è la decodifica di un segnale. La sfida è stata lavorare su supporto mobile e con tecnologia touch screen – volevo che apparissero gli elementi da toccare, ma che non oscurassero troppo le immagini che appaiono.
Immagini dall'installazione Fluc, realizzata da Llaura McGee nel 2015, che anticipa in parte le meccaniche di Contact, ponendo la persona che gioca in una tenda interattiva. Courtesy dell'artista
Per la parte visuale ho collaborato con l’artista Bri Chew, che ha creato alcuni dei collage del gioco basandosi sui miei testi e su alcuni prototipi che avevo realizzato. Volevo riprodurre l’estetica dell’internet dei primordi che ha permesso alle persone di comunicare in modo collettivo e diffuso, proprio come i funghi. Per rendere il gioco coerente nelle sue parti, ho lavorato come faccio di solito, producendo molte iterazioni e decidendo gli aspetti più funzionali un po’ alla volta.
Anche la parte di interazione in senso stretto ha passato fasi diverse: all’inizio la parte visiva era raccolta dentro piccole finestre, ma poiché lavoravamo su supporto mobile, dunque su schermi tendenzialmente piccoli, abbiamo deciso di dare più spazio alle immagini. Questo ha condizionato anche la parte scritta, perché inizialmente il testo era piuttosto ingombrante. La soluzione finale è stata associare ogni pezzo di narrazione a una parola chiave, che appare come un bottone interattivo in modo abbastanza discreto. 
Quando si parla di videogiochi, spesso si pensa che sia tutta questione di scelte, ma la mia visione è diversa: vorrei che il giocatore provasse un coinvolgimento piacevole. Giocare a Super Mario è una scelta (saltare qui e saltare lì) ma alla fine il punto è sentire un coinvolgimento nell’esperienza di gioco. In Contact si possono ascoltare le parole della storia e allo stesso tempo interagire con elementi visivi.
Screenshot di iterazioni di Contact, durante il suo sviluppo. Courtesy dell'artista
Il gioco sfrutta in modo poetico l'immaginario comune che abbiamo rispetto al cosiddetto “incontro del terzo tipo”. Che ricerche hai fatto?
Una grossa fonte di ispirazione, dal punto di vista sonoro, sono stati vecchi prodotti di fantascienza, come il film Forbidden Planet del 1956, che è ricco di suoni sintetizzati. Devo dire che Laura Ryder, la sound designer che ha creato le musiche, è stata fenomenale anche nel modo in cui ha aggiunto gli effetti sulla voce, dandole una sfumatura unica. È buffo come l’immaginario relativo agli alieni sia lo stesso per tante persone e sia legato a una cultura importata soprattutto dagli Stati Uniti. Durante la mia infanzia in Irlanda, ricordo che ci vergognavamo, in un certo senso, della cultura irlandese, perché per noi la cultura era qualcosa che veniva dall’estero, dagli Stati Uniti, da Hollywood e ovviamente dal Regno Unito (non puoi sfuggire al Regno Unito!). L'ossessione per quel tipo di cultura e immaginario è presente anche nel game design: perché uno studio in Francia decide di fare un gioco sulla Highway 61? Ci sono così tanti posti interessanti da queste parti. 
E così tanti misteri! L’Europa è piena di storie e mitologie affascinanti da raccontare.
Esatto! Contact per esempio è ambientato vicino ai luoghi dove sono cresciuta. Nel crearlo mi sono chiesta cosa succederebbe se gli alieni arrivassero qui, ma anche come sarebbe stato ambientare un film hollywoodiano qui, in Irlanda.
Per la 23ª Esposizione Internazionale, Contact è stato tradotto dallo studio We Are Müesli e doppiato da Marta Pizzigallo. Come è stato per te questo processo? 
È stato interessante testare Contact in italiano poche settimane prima dell’uscita e sentire la voce di Marta, perché è diversa dalla mia ed è un po’ come se avessimo creato due versioni diverse del gioco.
La voce originale è la tua, quindi?
Sì! La mia voce è meno professionale di quella di Marta, ma come artista era fondamentale per me narrare il gioco nella versione inglese. È un’esperienza molto personale che non succede spesso nei videogiochi. È stato interessante accostare concetti importanti legati allo spazio alla realtà estremamente relativa di una piccola città e della me stessa tredicenne. Usare la mia voce ha dato a Contact una dimensione da zine autoprodotta.
Marta Pizzigallo durante la registrazione della voce doppiata in italiano della protagonista di Contact, presso lo studio Mastermaind di Cinisello Balsamo, in compagnia di Riccardo Reina di Santa Ragione. Courtesy Santa Ragione
La protagonista di Contact si riconosce come aliena – un’identità che rivendica in contrapposizione a una definizione molto limitata di “umano”. Ho apprezzato molto il modo in cui racconta l’essere aliena come un diritto, accogliendo una diversità che è semplicemente la sua vera natura. Pensi che sia rara una visione positiva della diversità, nel modo in cui parliamo di identità oggi?
Sì, lo penso eccome. La protagonista compie un viaggio che parte dalla paura di essere qualcosa di terribile e dal cercare di evitarlo in tutti i modi, per poi accorgersi che in realtà va benissimo essere se stessa. Anzi, c’è proprio un aspetto rivelatorio: il mondo è pieno di persone come lei, che non sono definite esclusivamente dal loro essere aliene – o essere persone trans, se vogliamo uscire dalla metafora del gioco. Alcune sono buone, altre cattive, alcune sono divertenti, altre noiose; insomma, l’essere “aliene” è solo una parte di loro. Ed è normale. Per la protagonista, vedere due “alieni” in vacanza significa accorgersi che anche loro fanno cose come tutte le altre persone. La metafora dell’alieno è divertente perché permette anche una rivendicazione gioiosa: mettiamo che tu sia davvero un alieno, sai cosa puoi fare? Volare in giro con la tua navicella spaziale!
Screenshot di iterazioni di Contact, durante il suo sviluppo. Courtesy dell'artista
Infatti! Essere alieni non è niente male!
Contact racconta una metafora ma è anche un modo per dire che essere “alieno” non è l’unica cosa che ti definisce, e in più ti permette di fare anche cose incredibili. La gente che ci disumanizza e vuole separarci dal resto delle persone cercherà sempre di dimostrare che siamo diversi. Dunque, ho imparato che è meglio dire che sì, siamo alieni, diversi, ma è una cosa bella. Penso che questo sia il messaggio di Contact: non nascondere il tuo essere “un alieno,” ma accoglilo; e, ovviamente, che ogni persona, inclusi “gli alieni”, merita amore.
Quattro screenshot dell'opera Cats in Cars Listening to Radio realizzata da Llaura McGee nel 2014, in cui ogni elemento è fatto di pixel in movimento che si agglomerano in una forma coerente quando la persona che gioca sintonizza la radio tramite pulsanti e manopole. L'idea di un'interazione non lineare che permette di decodificare il mondo del gioco è la stessa presente in Contact. Courtesy dell'artista