MINE, courtesy l'artista
Scavare nell’ignoto: intervista ad Akwasi Bediako Afrane su MINE
17 settembre 2022
Nell'ambito della Game Collection Vol. 2, mostra virtuale a cura di Pietro Righi Riva, presentata in occasione della 23ª Esposizione Internazionale, Giulia Trincardi parla con il game designer ghanese Akwasi Bediako Afrane di grotte, miniere e ignoto.
Le caverne sono un luogo naturale intrinsecamente legato al senso dell’ignoto. Dalle pitture rupestri nelle grotte di Lascaux al mito della caverna di Platone, sono l’emblema del desiderio umano di conoscenza. Cosa si nasconde nelle viscere di una grotta? Cosa si manifesta, come una proiezione concreta o immaginaria, sulle sue pareti? Uno dei primissimi videogiochi della storia, Colossal Cave Adventure – scritto nel 1976 da Will Crowther per le proprie figlie, diventato in seguito un cult dell’informatica giocato da tantissime persone –, è basato sui rilevamenti fatti nella Mammoth Cave (la caverna più lunga del mondo, in Kentucky) dall’allora moglie Patricia Crowther, speleologa e programmatrice a sua volta. Ma le grotte non sono solo luoghi naturali, sono anche luoghi artificiali, creati dall’essere umano nella sua ricerca spasmodica di risorse. In questo caso prendono il termine di miniere e, oltre al significato filosofico (o persino esistenziale) assumono anche un’accezione politica ineluttabile – spesso trascurata dalle opere di intrattenimento che scelgono di ambientare in questi luoghi le proprie avventure.
Nel contesto della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, l’istituzione presenta, nella seconda edizione della Game Collection, a cura di Pietro Righi Riva, l’opera interattiva MINE, realizzata dal designer Akwasi Bediako Afrane. MINE riflette sul rapporto che abbiamo con le risorse naturali – minerali, metalli, terre rare – che compongono la tecnologia e che vengono estratte dalla terra, tra malsane condizioni lavorative e gravi conseguenze ambientali. Abbiamo parlato con l’autore di grotte e miniere e di come cambia il significato dell’ignoto quando ignorare qualcosa è una scelta (più o meno) inconscia.
Akwasi Bediako Afrane, designer di MINE. Courtesy l'artista
Ciao Akwasi, grazie per essere qui. Il tema di questa edizione della Triennale Game Collection è Unknown Unknowns. Qual è stato il tuo primo pensiero, quando sei stato coinvolto nel progetto?
Ho iniziato subito a riflettere sull’idea di “ciò che non sappiamo di non sapere”. Era da un po’ – un anno circa – che riflettevo su come e quando ci capita di ignorare qualcosa, dunque anche per MINE ho scelto di concentrarmi sull’aspetto più concreto dell’inconsapevolezza, dell’oblio.
È interessante, perché quando poni questa domanda alle persone, la maggior parte pensa subito a qualcosa di molto astratto e lontano, il più delle volte allo spazio, l’universo. Ma tu hai scelto di restare nel tangibile, nelle profondità della Terra. Da dove nasce questa esigenza?
Se ci pensiamo, tutto ciò che riguarda l’esperienza umana è in realtà radicato nella Terra. Nell’interpretare il tema della Game Collection, ho capito subito di voler lavorare sul concetto di miniera, perché come artista uso dispositivi elettronici per produrre le mie opere, e nel tempo ho notato una considerevole distanza nell’esperienza quotidiana delle persone tra l’aspetto fisico della tecnologia e la virtualità che offre. Quando gli utenti usano piattaforme online per chiacchierare, come stiamo facendo noi, non pensano a cosa le rende possibili e, nello specifico, non pensano alle miniere dove si estraggono le materie prime che compongono queste tecnologie. Per me è stato importante e interessante esplorare questa idea e trovare una forma per esprimere questa esplorazione artisticamente.
Una versione preliminare del mondo di gioco di MINE. Courtesy l'artista
È vero, tendiamo a pensare che internet sia qualcosa di etereo, intangibile, quando in realtà è fatto di metallo, ferraglia, cavi. Ma è difficile visualizzarlo perché è tutto nascosto alla nostra vista – sotto terra o in satelliti a molti chilometri dal suolo – dunque non pensiamo a come sono fatte queste cose. Ed è uno spazio importante da riempire. Qual è stato il processo di design del gioco?
Inizialmente, ho ragionato su un modo per permettere alle persone di immergersi nell’esplorazione che stavo compiendo intellettualmente sulle miniere, e ho scelto di riprodurre la meccanica propria di molti videogiochi di avventura ambientati in luoghi del genere. La cosa che apprezzo di questi videogiochi è che permettono di esplorare lo spazio in diverse direzioni, scoprire cosa contiene e immergersi in modo unico e personale. Ogni persona fa un’esperienza diversa del virtuale – non è mai lo stesso. Per prima cosa, quindi, ho scelto la meccanica da gioco di avventura, poi ho riflettuto su cosa contiene una miniera. In una miniera di minerali si vede qualcosa di simile a cristalli, ma non solo, ho voluto che il pubblico vedesse anche altro: le componenti che produciamo grazie a queste risorse. Così ho aggiunto elementi elettronici e uno scenario che si apre quando chi gioca interagisce con le componenti e che racconta la storia di come questi materiali sono processati per ottenere ciò che chiamiamo “il virtuale”.
Per quanto sia un gioco più evocativo che didascalico, il concetto che vuole trasmettere è chiaro. Che tipo di ricerche hai fatto, per documentarti sul tema?
Questo progetto è arrivato in un momento particolare della mia vita, di coincidenza con altri progetti su temi simili. Stavo già lavorando su un documentario a proposito del ciclo di vita dei dispositivi elettronici: ho incontrato aziende che fanno scavi minerari, ho parlato con chi si occupa di riparazione dei dispositivi e con chi ne recupera e commercia parti e materiali dopo lo smaltimento. Lo scollamento tra la realtà di questi processi e le persone che li compiono è così radicata che, queste ultime, o ne sono del tutto ignare o non se ne preoccupano. Ho incontrato, ad esempio, una persona che commercia pezzi recuperati che mi sapeva dire “guarda, questo è argento, questo è oro”, ma non tutti hanno la stessa consapevolezza. Per la parte di ricerca sono stato su siti minerari e ho parlato con persone la cui vita gira intorno a questi dispositivi elettronici.
Dettaglio delle componenti elettroniche inserite nel percorso di gioco. Courtesy l'artista
Chi studia questi processi dice spesso che “scaviamo buchi nella terra per estrarre risorse con cui costruire tecnologie che poi buttiamo in altri buchi nella terra” – le discariche – nel giro di pochissimi anni.
È esattamente così. Ed è anche interessante il fatto che moltissimi di questi minerali e materiali estratti non sono dannosi per l’ambiente finché restano dove sono, ma lo diventano nel momento in cui sono trasformati in prodotti che vengono abbandonati nelle discariche, diventando velenosi per la Terra.
È perché ci aggiungiamo il “tocco umano”.
[Ride] Esatto, è proprio quello.
Un altro aspetto che ho trovato interessante di MINE è che finisce in un vicolo cieco, simile al punto da cui inizia. Il labirinto della miniera è come uno specchio, non c’è modo di fuggire. Come mai questa scelta?
All’inizio ho ragionato su rendere il gioco “infinito”, poi ho pensato che tutto ha una fine – le nostre vite e i dispositivi che creiamo (al netto di un’economia circolare che migliorerebbe sicuramente la situazione, ma non in modo assoluto). Ho anche riflettuto sul fatto che consideriamo e usiamo la tecnologia come uno strumento di miglioramento dell’uomo. Per me, come artista, i dispositivi sono vere e proprie protesi, sono parte di noi. Ma coltiviamo un’idea illusoria di allontanamento dalla nostra natura biologica, con lo scopo di trasformarci in una versione meccanica di noi stessi che ci salvi da una fine comune a ogni cosa e inesorabile – eppure anche il meccanico, in ultima istanza, è biologico, perché i minerali vengono dalla terra e lì ritornano.
Dettaglio di componenti elettroniche e cristalli inserite sul percorso di gioco. Courtesy l'artista
Forse è la stessa illusione che spinge tante persone a voler “fuggire dalla Terra” per andare nello spazio – soprattutto, per qualche ragione, uomini bianchi che hanno superato la mezza età e che probabilmente non vivranno abbastanza per partecipare alle prime missioni di colonizzazione spaziale.
Esatto, e quello che succederà lassù, ti assicuro, sarà esattamente quello che succede qui. Distruggeranno tutto come fanno qui.
Certo, scavare miniere per estrarre risorse sarà tra i primi obiettivi. Dunque il tuo gioco, in fondo, potrebbe essere anche ambientato nello spazio.
[Ride] In fondo sì, grazie per avermelo fatto capire.
Abbiamo parlato di ignoto e di inconsapevolezza. Quale pensi che sia la differenza sostanziale tra le due cose?
Qualcosa che “non sai di non sapere” prevede un’impossibilità di conoscenza – al netto di circostanze particolari che possono, dall’esterno, fornirti una chiave di conoscenza. Ma ciò che scegliamo di lasciare ignoto, di ignorare, è legato al concetto di oblio rispetto alla realtà concreta delle cose che citavo prima. Ed è affascinante, perché si lega bene col tipo di esplorazione che voglio offrire alle persone. Quanto vogliamo sapere di ciò che riguarda le nostre vite? Delle cose che indossiamo, per esempio? Ci interessiamo magari a un argomento – ad esempio la tecnologia – ma scegliamo di ignorarne altri. E i materiali che compongono il nostro mondo condividono tutti, in certa misura, aspetti che scegliamo di ignorare.
È anche probabilmente una questione di privilegio. Alcune persone hanno la possibilità di ignorare questi temi, altre non possono perché la loro vita ruota intorno a produzione e smaltimento di questi materiali.
Certo. Ed è anche tutto legato all’esperienza. Prima hai parlato dello spazio: sono certo che se mai avessi la possibilità di andare su Marte, inizierei a pormi domande nuove.
E con l’esperienza, cambierebbe la tua percezione.
Esatto, l’idea dell’ignoto come qualcosa che “non sai di non sapere” ha a che fare con la possibilità di esperire qualcosa e di iniziare a porti delle domande di conseguenza. Ovunque tu sia.