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Triennale Milano
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MirrorMoon EP, Santa Ragione

Videogioco spazio alieno

1 luglio 2022
In occasione della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale viene lanciato il secondo volume della Triennale Game Collection, a cura di Pietro Righi Riva. Matteo Lupetti ci introduce al videogioco e agli autori presenti nella collezione.
All’inizio del videogioco MirrorMoon EP di Santa Ragione (2013) siamo nella cabina di pilotaggio di un’astronave e davanti a noi vediamo una miriade di tasti, schermi, manopole e leve di cui ignoriamo la funzione. Attiviamo interruttori, un po’ a caso, premiamo un pulsante e all’improvviso siamo su un pianeta. Abbiamo in mano qualcosa che sembra una pistola, ma non spara, c’è una luna in cielo, e a un certo punto capiamo che in realtà è una copia del corpo celeste su cui ci troviamo, una mappa tridimensionale sospesa sopra di noi. Camminiamo sul pianeta, troviamo architetture, aggiungiamo pezzi alla nostra strana pistola e ora possiamo interagire con la luna, possiamo ruotarla, possiamo spostarla. Iniziamo forse a capire qualcosa di questo mondo misterioso. Il direttore di Santa Ragione, Pietro Righi Riva, nel 2016 ha curato per la 21ª Esposizione Internazionale la Triennale Game Collection, una raccolta di videogiochi appositamente commissionati per affrontare anche con questo medium i temi dell’esibizione. Nel 2022 ne arriva un secondo volume, pensato per la 23ª Esposizione Internazionale intitolata Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries. E i videogiochi hanno molto da raccontare su come ci rapportiamo con l’ignoto, perché entrare nel mondo di un videogioco, come in quello di MirrorMoon EP, vuol sempre dire entrare in uno spazio alieno. Uno spazio di cui, soprattutto all’inizio, non conosciamo le regole, uno spazio che comprendiamo solo nella misura in cui ci ricorda lo spazio fisico.
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Mirror Moon Ep, Santa Ragione
Moncage, Optillusion
Moncage, Optillusion
La centralità dello spazio nei videogiochi emerge chiaramente dai lavori precedenti di alcune delle persone coinvolte nella Game Collection Vol. 2. Le prospettive che diventano puzzle da risolvere in Moncage di Optillusion e XD (e anche per questa Triennale Game Collection Optillusion ha realizzato un puzzle, WADE). I paesaggi che cambiano manipolando la musica in Panoramical di Fern Goldfarb-Ramallo, David Kanaga e Finji (e nella seconda Triennale Game Collection Goldfarb-Ramallo presenta l’opera audiovisiva We Are Poems). Lo spazio domestico, alienante per l’abuso che racconta, attraversato in Last Call di Star Maid Games (Nina Freeman, di cui la Game Collection ospiterà Nonno’s Legend) e Curtain di Dreamfeel (Llaura McGee, che nella nuova Collection firma Contact).
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Panoramical, Fern Goldfarb-Ramallo, David Kanaga e Finji
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Last Call, Star Maid Games (Nina Freeman)
Michel de Certeau, in L'Invention du quotidien 1. Arts de faire (1980), ha in fondo scritto che “ogni storia è una storia di viaggio, una pratica basata sullo spazio” e, più nello specifico, Henry Jenkins ha chiamato “architettura narrativa” lo sviluppo di videogiochi ("Game Design as Narrative Architecture" in First Person. New Media as Story, Performance, and Game, MIT Press, 2004). “Chi crea videogiochi non racconta meramente storie,” scrive Jenkins. “Ma progetta mondi e scolpisce spazi.” La storia della creazione dei videogiochi si sviluppa a partire da quella dei giochi da tavolo e dei giochi di ruolo cartacei, in stile Dungeons & Dragons, in cui è centrale lo spazio in cui avviene l’azione: la scacchiera, la plancia, il labirinto sotterraneo (il dungeon appunto). Anche i primi videogiochi testuali ci presentano, prima di tutto, una descrizione dei loro luoghi. “Ti trovi alla fine di una strada di fronte a una piccola costruzione in mattoni. Intorno a te, una foresta. Un ruscello sgorga dall’edificio e scende in una gola” racconta l’inizio di Colossal Cave Adventure di William Crowther e Don Woods (1977), antenato del genere “avventura” che prende nome da questo gioco e che ha dato vita a serie come quella di Monkey Island.
Se le città si espandono occupando tutta la Terra, se lo spazio è al momento appannaggio solo degli Elon Musk, il videogioco ci offre nuove frontiere da esplorare in un mondo che, per una parte ben specifica della popolazione umana, appare ormai senza frontiere. “Le tecnologie in realtà virtuale vengono presentate e analizzate come capaci di aprire una nuova frontiera, come strumenti che permettono di muoverci da uno spazio noto a uno ignoto” afferma Jenkins in una conversazione con Mary Fuller, studiosa di commercio, esplorazione e colonizzazione all’inizio dell’età moderna ("Nintendo® and New World Travel Writing: A Dialogue" in Cybersociety: Computer-Mediated Communication and Community, SAGE Publications, 1995). “Questa è una risposta [negli USA] alla sensazione che l’America sia ormai troppo piena, troppo familiare, troppo popolata.”
L’esplorazione della nuova frontiera videoludica è spesso violenta: chi gioca conquista lo spazio, ne ruba i tesori e massacra chi lo occupava in precedenza. L’alieno è un nemico, il territorio è una risorsa da sfruttare. E lo spazio di questi videogiochi è effettivamente progettato per essere conquistato: la conquista dello spazio videoludico è il “destino manifesto” di chi gioca. Come secondo un pensiero diffuso nel XIX secolo l'espansione degli Stati Uniti d'America fino alla costa occidentale americana era il loro "destino manifesto," un destino inevitabile perché guidato persino da volontà divina. “Potrei ipotizzare che la retorica che gira intorno alla realtà virtuale come Nuovo Mondo o nuova frontiera sia dovuta al desiderio di ricreare l’incontro rinascimentale con l’America, ma senza vittime” aggiunge Fuller nella conversazione con Jenkins. “Stavolta, se ci sono altre persone presenti, non sono davvero umane (come nel caso dei personaggi di un videogioco di Nintendo) o, se lo sono, saranno anche loro lì per giocare, e i loro corpi non verranno realmente messi in pericolo dalle armi che imbracciamo.” Fuller esprime però dubbi sul fatto che la nuova frontiera digitale non abbia davvero vittime, e MINE di Akwasi Bediako Afrane, parte della Game Collection Vol. 2, mostra il costo umano e ambientale della realizzazione dei dispositivi digitali che usiamo quotidianamente.
Molti generi di videogiochi sono incentrati proprio sulla conquista violenta del territorio. Ci sono i videogiochi di strategia come le serie Civilization e Age of Empires, discussi da Souvik Mukherjee nel suo Videogames and Postcolonialism. Empire Plays Back (Palgrave Macmillan, 2017). Ci sono i cosiddetti “metroidvania” (portmanteau dei due riferimenti principali del genere, le serie Metroid e Castlevania), cioè quei videogiochi che Chris Totten ha definito nella prima edizione di An Architectural Approach to Level Design (A K Peters/CRC Press, 2014) come “labirinti di ricompense e possibilità.” “In queste opere chi gioca deve fuggire da grandi e coerenti ambientazioni” ci ha spiegato Totten via email. “Questo può essere fatto esplorando il labirinto e trovando potenziamenti permanenti (le ricompense) che aumentano le capacità di muoversi e di combattere dell’avatar, cioè (come diciamo nell’ambito accademico) che aumentano lo spazio di possibilità,” le possibili azioni che possiamo compiere. Ma esistono anche alternative a questo modo di raccontare l’incontro con l’alterità.
“I metroidvania tendono a essere in gran parte fantasie di potere” ci ha scritto James Primate, compositore e progettatore dei livelli del videogioco Rain World di Videocult e Akupara Games (2017), opera in cui interpretiamo una creatura in parte gatto e in parte lumaca in un brutale mondo post-apocalittico. “Ma i momenti che preferisco nei giochi alla Metroid sono quelli iniziali, quelli dove esplori lentamente strani mondi alieni osservando con attenzione l’ambiente intorno a te e cercando indizi per capire come questi mondi funzionino. Ti sposti furtivamente, hai paura di ogni cosa che si muove perché ancora ti senti fragile. Volevamo costruire un intero gioco su quella sensazione. Volevamo premiare l’osservazione, la comprensione. Non c’è una progressione basata su oggetti o poteri in Rain World, c’è solo la conoscenza che ottieni dall’esplorazione e dalla sperimentazione”.
Rain World, Videocult e Akupara Games
In Outer Wilds di Mobius Digital e Annapurna Interactive (2019) esploriamo liberamente un sistema solare alla ricerca dei segreti del suo passato, senza oggetti o abilità da acquisire e senza combattimenti. “La spinta all’esplorazione doveva arrivare dalla curiosità di sapere di più sul mondo” ci hanno detto gli sviluppatori di Mobius Digital. “Per questo motivo abbiamo rimosso qualsiasi ricompensa esterna come i potenziamenti. L’unica ricompensa doveva essere la conoscenza. [...] Invece di conquistare questi sistemi, chi gioca deve capirli grazie alla conoscenza guadagnata esplorando lo spazio”.
Gareth Damian Martin (Jump Over the Age), che cura la rivista digitale "Heterotopias", specializzata sul rapporto tra videogiochi e spazi architettonici, ha pubblicato nel 2020 In Other Waters con l’editore Fellow Traveller. È un’opera ambientata nelle profondità di un oceano alieno, ma per muoverci in questo mondo dobbiamo prima capirlo. “In Other Waters è un tentativo di sviluppare un’opera dove un ecosistema alieno è trattato come qualcosa con cui interagire e non come uno sfondo [...] Queste interazioni non sono violente, non modificano permanentemente l’ambiente, ma comunicano e collaborano con esso secondo le sue regole. [...] L’intero gioco, sia nella sua narrazione sia nelle sue meccaniche, è costruito sull’idea di riconfigurare la nostra relazione con l’ecologia. Spero che possa influenzare anche il modo in cui chi gioca si relaziona all’ecologia nella sua vita. Spero che possa aiutare le persone a capire che ci sono altri modi di pensare la nostra relazione con il pianeta e con le altre forme di vita che lo abitano”.
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Curtain, Dreamfeel (Llaura McGee)
Se lo spazio del videogioco è uno spazio alieno, analizzare e ripensare questo medium può aiutarci a capire come vediamo, e come potremmo vedere, la nostra relazione con l'ignoto, con ciò che è altro da noi e che ancora non comprendiamo e forse mai comprenderemo totalmente. “I giochi sono siti dove gli spazi fisici sono contemporaneamente rappresentati, contestati e rovesciati” ha concluso Damian Martin. “E in questo modo influenzano come capiamo lo spazio. Lo spazio virtuale, ma anche lo spazio fisico”.
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In Other Waters, Jump Over the Age e Fellow Traveller