ACCESSIBILITÀ TEATRO
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Triennale Milano
Aby Warburg, Introduzione a Mnemosyne (Tavola C), 1929, © The Warburg Institute Archive

Le università milanesi e il mistero. L’io e l’enigma, tra immagine e pensiero

25 ottobre 2022
Nell’ambito del percorso di approfondimento dei temi di Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, 23ª Esposizione Internazionale di Triennale, abbiamo coinvolto a partire da giugno 2021 ricercatori, dottorandi e studenti delle università milanesi e la rete delle comunità straniere in una serie di incontri e seminari organizzati e coordinati da Pupak Tahereh Bashirrad, architetto e dottore di ricerca.
L’inquietudine di una domanda eterna: i misteri dell’animo umano non segnano lo scacco dell’artista, bensì fungono da nucleo propulsivo per un’attività che, instancabilmente, si delinea come ricerca di qualcosa che sfugge. Intorno all’idea di elusività l’artista è quanto mai solidale con il filosofo, ovvero il creativo che per eccellenza si trova a fronteggiare costantemente l’enigma (da  àinos, “racconto”),  inteso come dilemma che non  necessariamente si può sciogliere in una soluzione univoca. Qual è il racconto che l’artista e il filosofo mettono in gioco per poi trovarsi essi stessi messi in gioco?
Kazimir Malevič, Quadrato nero, 1923
A partire dal tema della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano si può tracciare una linea di congiunzione trasversale alla dimensione artistica e a quella filosofica, interrogandosi su come declinare l’ignoto attraverso una narrazione in immagini. Abbiamo dunque provato a far risuonare il movimento della filosofia di fronte all’enigma attraverso una selezione visuale.
La figura del critico d’arte e pensatore amburghese Aby Warburg è tra quelle che più spontaneamente paiono immettersi in questa prospettiva: più che una storia dell’arte in senso stretto, il suo lavoro struttura una vera e propria “antropologia delle immagini”, una scienza (come viene definita in più circostanze) che si nutre di considerazioni a cavallo tra filosofia, storia dell’arte, antropologia, filologia, astrologia. Mnemosyne è il suo ultimo grande progetto incompiuto, illustrato durante una conferenza da lui tenuta a Roma pochi mesi prima di morire: si tratta di un atlante composto da pannelli neri, sui quali  sono riportate fotografie raggruppabili per macro-temi. Nelle tavole di Mnemosyne compaiono immagini di varia estrazione (riproduzioni di dipinti, fotografie, ritagli di giornale) organizzate nello  stesso spazio secondo una logica associativa. Le immagini costruiscono un percorso, forniscono una chiave di lettura sincronica sui problemi antropologico-espressivi che hanno costellato la storia dell’arte e, in un certo senso, la storia dell’umanità nel suo complesso, raggirando la vettorialità della storia e la consequenzialità logica della “evoluzione” (per questo  motivo  una fotografia dello Zeppelin può “convivere” con una raffigurazione delle orbite planetarie secondo Keplero). Tuttavia, questo senso interno non viene depositato nell’insieme delle immagini in sé, bensì nello spazio vuoto, diversamente modulato a seconda dei casi, tra le varie figure: quello che Warburg chiama Denkraum, lo “spazio del pensiero” è il mistero di uno spazio che non si articola visivamente, ma dà agli elementi visivamente e iconicamente formulabili della tavola il proprio senso e spessore. È interessante il fatto che l’iniziatore della moderna iconologia (etichetta che si potrebbe problematizzare sotto diversi aspetti, ma che in questa sede diamo per assodata) affidi il senso dei percorsi proposti nelle tavole agli spazi vuoti, bui, misteriosi che intercorrono tra una figura e l’altra. Il tema dell’immagine, o meglio, di una narrazione di immagini tra loro intimamente connesse, si scopre legato a doppio filo alla possibilità che lo spazio vuoto diventi relazione.

In tal modo abbiamo avuto la possibilità di soffermarci brevemente nell’atrio perturbante dove la commozione interiore più profonda viene trasformata in una forma artistica duratura, non per trovare una soluzione ai misteri dell’animo umano, bensì per ripetere nuovamente una domanda eterna: perché il destino assegna all’uomo creativo le sfere dell’eterna inquietudine affidandogli la libertà di trovare la sua educazione nell’Inferno, nel Purgatorio o nel Paradiso?
Aby Warburg
Hasegawa Tohaku, Dittico Tōhaku, XVI secolo
Ci sono culture che più di altre hanno valorizzato il potenziale connettivo dell’interstizio, rivelandone la natura dialettica: è il caso di quella giapponese, magnificamente esemplificata dal Dittico di Hasegawa Tohaku (XVI sec. ca.) in cui si riconosce un “vuoto pieno di senso”: il riferimento è al concetto di Ma, parzialmente traducibile con “spazio”, ma anche “distanza”, “vuoto”, “ritmo”, “apertura”. L’utilizzo dello spazio bianco diviene, nelle discipline artistiche giapponesi che ne sposano il principio, uno spazio pregnante di legami potenziali o attuali, esplicitati o soltanto intuiti nell’impatto visivo con l’interstizio vuoto. Gli elementi cruciali delle opere di Tohaku, all’interno di composizioni semplicissime, quasi minimaliste, come un allineamento di maestosi alberi di pino abbozzati, con varie gradazioni, a solo inchiostro, acquisiscono un senso nuovo alla luce del vuoto che le circonda.

Gli unknown unknowns sono, pertanto, quel “vuoto generatore di senso” a partire dal quale si articola lo spazio circostante del nostro sapere: in altri termini, il non-sapere che diviene condizione fondante per ogni sapere.
Questo gioco tra velamento e svelamento, questa equivocità del visibile e del sapere che le è connesso, è stato esplorato in chiavi diverse dagli artisti contemporanei (dimostrazione, questa, di quanto sia assillante e polimorfa la natura del problema): Gerhard Richter lo interpreta come sfocatura, ad esempio, mentre Emilio Isgrò ne fa una pratica di cancellatura. I ritratti di Richter sono caratterizzati da un’evanescenza che inequivocabilmente ricalca i concetti scharf  (a fuoco) e unscharf  (sfocato) nati nel contesto del campo fotografico e cinematografico, con l’intenzione di creare un evidente rimando all'errore tecnico che si può verificare in fotografia quando l'immagine risulta mossa, non nitida.
Nei ritratti dell’artista, ci troviamo di fronte all'impossibilità di mettere completamente a fuoco l'immagine raffigurata, poiché ne abbiamo soltanto una parziale anticipazione, della quale dobbiamo accontentarci. Questi tentativi di raffigurazione appaiono all’occhio come fotografie prive di una messa a fuoco, le quali rendono perfettamente l'illusione instillataci da tutte le cose in qualche modo avvolte da un alone di mistero il quale però, sappiamo intimamente, non afferreremo mai. Emilio Isgrò, a partire dalla metà degli anni Sessanta, ha lavorato sulla costruzione di un personalissimo linguaggio visivo, basato sull’utilizzo mirato di varie “cancellature”.  A detta dell’artista stesso, queste non sono operazioni censorie, bensì puntano a spalancare le potenzialità del linguaggio tramite un gioco dialettico tra pieni e vuoti, nel quale le parti annerite si trovano a fungere da connessioni inedite tra le parole coinvolte. Ciò a cui punta Isgrò è una vera e propria rigenerazione del linguaggio a partire dallo svelamento dei suoi limiti: la cancellatura permette di instaurare un rapporto inedito con le parole, eliminando ogni pretesa di un significato univoco, stabilito una volta per tutte.
Piet Mondrian, Composizione n°10 (Molo e oceano) (Pier and Ocean), 1915
A volte ci illudiamo di conoscere il mondo solo perché sappiamo come è fatto, ma questo non significa davvero “saperlo”. Il fatto che il mondo esista e che noi ci siamo dentro è ciò che desta  quella meraviglia che ci induce a chiederci perché esiste, perché siamo qui, cosa ci muove alla ricerca di risposte che (forse) non ci sono. Ma se non esistono risposte, allora perché ci poniamo la domanda? Questi interrogativi sono inevitabili, imprescindibili: è costitutivo della nostra essenza umana indagare i misteri, nonostante la consapevolezza che forse non saremo mai in grado di svelarli. Perché quel che  ricerchiamo, in fondo, non è tanto la verità, quanto la ricerca stessa. Questa ricerca perpetua si configura quindi come condizione esistenziale dell’uomo, che è propriamente quell’animale che esita, sostando sulla soglia tra il noto e l’ignoto, tra il vuoto e il pieno. Il punto dell’enigma infatti non è tanto la risposta ma la capacità di sopportare l’assenza di risposta. Come si fa a sopportarla? Innanzitutto inventando una risposta. Di fronte al velo di Maya, possiamo soltanto immaginare quello che il velo nasconde, rimanendo però perfettamente coscienti dell'impossibilità di squarciarlo e dunque di conoscere con certezza ciò che viene da esso celato.
Crediti
Articolo a cura di: Raffaele Ariano, Diletta Caimmi, Adele Di Lullo, Gaia Gallo, Alice Giordano, Mattia Lucchetti, Erminio Maglione, Valeria Nigro, Camilla Stecca
Direzione e coordinamento: Prof.ssa Francesca Pola
Università Vita-Salute San Raffaele, facoltà di Filosofia