Jbel Tachtafacht, Anti-Atlante marocchino. Foto di M.G Malusà
Le università milanesi e il mistero. Il pianeta Terra e le profondità di spazio e tempo
7 settembre 2022
Nell’ambito del percorso di approfondimento dei temi di Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, 23ª Esposizione Internazionale di Triennale, abbiamo coinvolto a partire da giugno 2021 ricercatori, dottorandi e studenti delle università milanesi e la rete delle comunità straniere in una serie di incontri e seminari organizzati e coordinati da Pupak Tahereh Bashirrad, architetto e dottore di ricerca.
Articolo a cura di Guido Pastore, Camilla Lanfranconi et al. del Corso di Dottorato in Scienze Chimiche, Geologiche e Ambientali, Università di Milano-Bicocca.
Non è facile, per un giovane scienziato, confrontarsi con il concetto di Unknown Unknowns senza trovarsi di fronte a scenari di inaspettata complessità. Se da un lato la ricerca scientifica può essere concettualizzata come l’esplorazione dell’ignoto (semplicemente unknowns), chiedere a uno scienziato “cosa non sa di non sapere” conduce inevitabilmente a risposte complesse, che creano nuovi spazi e stimoli per il progredire delle conoscenze nei vari ambiti di studio. Come dottorandi in Scienze Geologiche del Dottorato in Scienze Chimiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Milano-Bicocca, ci siamo posti questa domanda e abbiamo raccolto e analizzato le varie risposte, accorgendoci come queste rappresentassero, invariabilmente, declinazioni di due concetti cardine della nostra disciplina: la profondità dello spazio e la profondità del tempo.
Il geologo studia il pianeta e tenta di ricostruirne l’evoluzione attraverso lo studio delle rocce e delle loro proprietà fisiche e chimiche. Il tema della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano trova quindi applicazione nelle Scienze Geologiche proprio perché queste traggono linfa sia dall’osservazione della Terra nell’ambito di ciò che è direttamente osservabile in quanto prossimo alla superficie terrestre (known), sia dallo studio di ciò che non è direttamente osservabile in quanto eccessivamente profondo o non preservato nella memoria delle rocce (unknown).
Le profondità del pianeta
Nelle Scienze Geologiche, un esempio classico di ciò che possiamo dedurre ma non osservare direttamente è rappresentato dalla struttura e composizione interna del pianeta. Tutti conosciamo il raggio della Terra, pari a 6.371 km, ma possiamo solo dedurre quali materiali compongono gran parte di essa: le rocce che possiamo osservare, più o meno direttamente, rappresentano solo la parte più superficiale del pianeta, ovvero la crosta e parte del mantello superiore. Se la Terra fosse un’anguria, questi livelli rappresenterebbero la sola buccia. La profondità più grande mai raggiunta da una perforazione a opera dell’uomo, il pozzo “superprofondo” della Penisola di Kola, è di poco superiore a 12 km, quindi in grado di scalfire a stento la superficie del frutto. Fortunatamente, porzioni di rocce più profonde raggiungono talvolta la superficie terrestre grazie a processi tettonici e vulcanici, e possono essere quindi studiate dai geologi.
La Terra come un’anguria, illustrazione di M.G. Malusà
I frammenti di origine più profonda che osserviamo sulla superficie terrestre sono le minuscole inclusioni all’interno dei cosiddetti diamanti blu, come il famoso diamante Hope.
Il diamante Hope, dal caratteristico colore blu intenso, di probabile origine super profonda
Per quanto profondi, i livelli da cui derivano queste inclusioni sono comunque compresi nell’ambito del mantello superiore, tra 410 e 660 km di profondità. Quindi all’interno della buccia bianca dell’anguria.
Esempio di tomografia dell’interfaccia crosta-mantello sotto le Alpi Occidentali. Illustrazione da Zhao et al., 2020, open access di Nature Communications
E il resto del pianeta?
Le porzioni più profonde del pianeta, ovvero la polpa rossa dell’anguria, sono indagabili solo in modo indiretto, per esempio analizzando le velocità di propagazione delle onde sismiche generate dai terremoti. Rocce diverse sono caratterizzate da una diversa velocità di propagazione delle onde sismiche. Ciò permette di effettuare delle tomografie sismiche, ovvero sorta di TAC mediche a scala “planetaria” che mostrano la distribuzione delle velocità delle onde sismiche all’interno del pianeta, restituendo immagini che i geologi cercano di interpretare alla luce di ciò che già conoscono (known).
Ma quale sarebbe l’intepretazione dei geologi se conoscessero ciò che non sanno di non conoscere? E quindi, quali le implicazioni nella comprensione delle relazioni tra processi profondi e superficiali e della loro interazione con le attività antropiche? Ecco, quindi, un unknown unknown di primaria importanza nell’ambito delle Scienze Geologiche.
A sinistra, sedimenti trasportati dal fiume Zambezi osservati al microscopio. A destra, fossile della famiglia dei fusulinidae, foraminiferi estinti vissuti tra il Carbonifero e il Permiano (350-250 Milioni di anni fa). Foto di G. Pastore
Le profondità del tempo
Le profondità del tempo rappresentano un altro concetto cardine per la ricostruzione dell’evoluzione del pianeta in cui viviamo. Riuscire a collocare nel tempo l’evoluzione di una roccia e i processi che ne hanno determinato la formazione e le attuali caratteristiche può essere un’operazione molto complessa.
In geologia, il tempo è materializzato dalle rocce. Quelle formate a partire da antichi sedimenti possono contenere fossili, che ci permettono di determinare l’età relativa delle rocce e ci danno informazioni utili per comprendere il clima e gli ambienti del passato. I processi che formano le rocce sono i veri attori che materializzano il tempo, fissando un preciso momento dell’evoluzione del pianeta nella memoria della roccia stessa.
Alla luce di queste relazioni tra tempo e materia, risulta quindi evidente come in geologia si possa in realtà conoscere solo quel tempo che è preservato nella successione di rocce e che non è stato cancellato dai processi di erosione. Ma considerando tutta la storia della Terra, quante rocce si sono preservate intatte fino a noi? Solo una minima parte. Il geologo è come un viaggiatore in treno che pretende di descrivere il paesaggio che ha attraversato avendo la possibilità di aprire gli occhi soltanto in maniera sporadica, e per pochi secondi. La storia geologica del nostro pianeta è il tentativo di collegare tra loro punti separati in un tempo che, per la maggior parte, è a noi sconosciuto, proprio perché non tutte le rocce vengono preservate.
Nella “Scala dei turchi” ad Agrigento gli strati calcarei (composti di organismi plantonici) sono alternati ciclicamente a strati argillosi di trasporto fluviale. A destra, la catastrofica frana della Val Pola (1987) testimonia il depositarsi di 40 milioni di metri cubi di roccia in un singolo giorno. Illustrazione di G. Pastore
Il concetto di discontinuità temporale è esemplificato dal paesaggio del Jbel Tachtafacht, rilievo dell’Anti-Atlante marocchino, che mostra nella porzione inferiore strati inclinati che registrano una storia deposizionale paleozoica (450 milioni di anni fa) lunga circa 10 milioni di anni, mentre i depositi vulcanici scuri della sua parte sommitale sono datati a 5 milioni di anni. La superficie che separa le due porzioni del rilievo rappresenta un intervallo di tempo estremamente lungo, che tuttavia in questa località non è materializzato da rocce. Quanto sarebbe diversa la nostra ricostruzione della storia della Terra, se potessimo conoscere tutte le rocce che la compongono e che l’hanno composta ma che sono state cancellate dal record geologico?
Come scorre dunque il tempo per il geologo?
Poiché le rocce non si formano tutte allo stesso modo, e il tempo sappiamo essere materia ai nostri occhi, è corretto ritenere che esso scorra a diverse velocità nel record geologico. Se consideriamo infatti una roccia sedimentaria, composta da granelli di materiale, essa potrà rappresentare la costante deposizione di piccoli gusci di conchiglie o granelli di sabbia in un bacino di mare, che nell’arco di milioni di anni si accumulano sul fondale, oppure potrà rappresentare un evento istantaneo come una frana o un’eruzione vulcanica. Se la quantità di materia è infatti la stessa, la roccia avrà lo stesso spessore, nonostante in essa sia contenuta una diversa “quantità di tempo”. Dunque arriviamo a comprendere come ciò che non sappiamo di non sapere non è ciò che manca nella nostra conoscenza o nelle nostre teorie, ma più spesso l'incapacità di abbattere concetti propri dell'uomo quali il pensare che rocce con lo stesso spessore rappresentino lo stesso tempo trascorso.
Riassumendo, abbiamo cercato di esplorare i concetti della 23ª Esposizione Internazionale tramite la speculazione di ciò che non sappiamo di non sapere nella scienza geologica, declinando questo concetto, non come ciò che è sconosciuto, ma come ciò che è impossibile conoscere, e che tuttavia resta cruciale per descrivere il nostro pianeta e la sua storia. Le Scienze Geologiche sono il tentativo umano di raccontare una storia con gli strumenti che sappiamo di avere, e di affrontare le domande che sappiamo di non sapere cercando di “collegare punti di tempo conosciuto”. Ma quanto diversa sarebbe la storia della Terra se potessimo conoscere tutte le rocce che la compongono e che l’hanno composta ma che sono state poi cancellate dal record geologico? Quanto Unknown Unknowns rimane da scoprire?
Crediti
Attività svolta sotto la supervisione del prof. Marco G. Malusà, Coordinatore del Corso di Dottorato in Scienze Chimiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Milano-Bicocca. Si ringraziano per i suggerimenti e le discussioni i dottorandi Gloria Arienti, Nicola Bavaresco, Emanuele Bozzi, Andrea Galli, Sofia Locchi e Luca Mariani.