Una varietà di batteri diversi – test di resistenza antimicrobica. Ph: DFID/ Will Crowne. DFID - UK Department for International Development, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons
Le università milanesi e il mistero. Perché la scienza è una rivoluzione?
1 dicembre 2022
Nell’ambito del percorso di approfondimento dei temi di Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, 23ª Esposizione Internazionale di Triennale, abbiamo coinvolto a partire da giugno 2021 ricercatori, dottorandi e studenti delle università milanesi e la rete delle comunità straniere in una serie di incontri e seminari organizzati e coordinati da Pupak Tahereh Bashirrad, architetto e dottore di ricerca.
ph. Public domain
La matrice delle idee che aprono la strada a nuove scoperte scientifiche è un ammasso di conoscenze più o meno ordinate, immerse nel cosiddetto “spirito del tempo”, la temperie culturale del Novecento. Quanto la scienza e la sua logica debbano a ciò che di illogico, irrazionale e caotico attraversa le vite e le menti delle persone che fanno scienza non è solo un dato curioso per amanti delle biografie illustri, ma è l’anima stessa del pensiero scientifico, la sua potenza, il suo motore mai stanco. Dall’immaginazione di tutte le ipotesi e di tutti gli scenari possibili, il lavoro scientifico impone di sfrondare con rigore tutti i dettagli iniziali, per individuare quelli che si ipotizza siano gli elementi fondamentali del meccanismo che si vuole indagare. E poi, passo dopo passo – verificando ogni volta di non aver preso un abbaglio a pensare che le cose vadano così e non cosà – si scopre che tutti i pezzi sono concatenati gli uni agli altri come cause e conseguenze, e tutto lo scenario iniziale viene ricostruito, con variazioni e aggiustamenti, e con le basi solide della verifica empirica.
Fare scienza non significa semplificare la complessità, ma immaginarla, immaginare cosa ci sia dentro, e farla esplodere, proiettandola sulle pareti della stanza che è la nostra teoria – o la nostra vita – di persone di scienza. Fare scienza e inventare non sono attività distanti, solo che la prima ha dei vincoli incontrovertibili con cui non ci si può esimere dal confronto. Uno degli ignoti che nel fare scienza ignoriamo è il punto esatto nel tempo della nostra mente in cui l’ammasso informe di fatti provati e convinzioni più o meno intrise di desideri diventa un’idea sulla quale basare un’ipotesi scientifica, la particella minima di un progetto di ricerca.
Fra tutti i nostri sensi, la vista è quello che fornisce alla mente il maggior numero di informazioni. […] Non sorprende che anche gli strumenti scientifici tendano soprattutto a potenziare la vista, estendendola in nuovi lontani ambiti di scala, di intensità e di colore.
tratto da Potenze di dieci, P. e P. Morrison, Zanichelli, 1986
Come uomini percepiamo la realtà attraverso i sensi, declinandola in dimensioni spaziali e temporali. Tutto quello che conosciamo deriva da osservazioni che devono per forza di cosa passare dai sensi. Come scienziati utilizziamo strumenti come prolungamento dei sensi (le lenti per la vista, il microscopio per osservare il piccolo e il telescopio per il grande). Gli strumenti e le tecnologie, congiuntamente alla nostra mente, ci consentono di conoscere e indagare la realtà nelle sue sfaccettature, anche quelle prima invisibili. Così, a ogni scoperta, abbiamo nuovi strumenti e scopriamo di avere altro da scoprire. Questo concetto si unisce ai grandi misteri irrisolti (che sappiamo bene di non sapere, e non sappiamo quando e se li comprenderemo) in uno slancio di cui non vediamo la fine.
Quarzo Ametista al microscopio, Ph. 3.0 (Gianluca Nicoli)
Così si delinea la dicotomia mente (che comprende la ragione più rigorosa assieme a intuizione e creatività) /tecnologia, rappresentando congiuntamente gli strumenti indispensabili di ogni avanzamento scientifico. In questo scenario, il soggetto nella sua peculiarità è parte integrante dell’indagine scientifica. Cosa facciamo è influenzato da cosa siamo. Agiamo come un filtro ed è interessante chiederci che cosa possiamo scoprire anche su noi stessi in questo percorso. Ponendoci una domanda di senso, possiamo mettere in luce il rapporto tra cosa ci circonda e cosa siamo.
Ne è un esempio plastico l’ideazione della tavola periodica degli elementi, e il suo progressivo completamento sulla base di predizioni poi confermate scientificamente. Scelta da Oliver Sacks come idea più geniale del millennio per la sua capacità di sintesi e organizzazione delle informazioni, portò Felice Marco ad affermare che “la Chimica non ha più da invidiare alla Fisica, il merito di saper profetizzare fatti che poi l’esperimento attesta”. Partendo da una lista stilata da Lavoisier, Mendeleev lavorò duramente per ordinare e trovare un senso agli elementi nel loro insieme, arrivando a un sistema che contemplasse dei vuoti ancora da riempire. Le critiche alla proiezione della forte intuizione di Mendeleev, concretizzatasi nella tavola periodica, cedettero in seguito il posto alle evidenze sperimentali. Benché incompleta, la lista era il primo tentativo di mettere ordine tra gli elementi, un puzzle molto complicato che avrebbe richiesto più di un secolo per essere risolto e molti altri decenni per essere completato con quasi tutti i suoi pezzi. Parliamo di “puzzle” perché il suo sistema contemplava la possibilità che vi fossero altri elementi ancora da scoprire (tasselli esistenti ma che ancora andavano “cercati”) e che fosse quindi normale che alcune caselle dello schema fossero vuote. Mendeleev attirò numerose critiche per avere lasciato quei buchi, ma le scoperte dei decenni seguenti gli diedero ragione.
Una delle tavole periodiche disegnate a mano da Dmitri Mendeleev esposte nei suoi appartamenti all'Università di San Pietroburgo, ph. Public domain
A volte, però, è più semplice accendere la luce. Questo è quello che deve aver pensato Bob Williams nel 1995, allora Direttore dello Space Telescope Science Institute, quando decise di osservare una porzione apparentemente vuota di spazio utilizzando il telescopio Hubble. Quello che ottenne fu una immagine prodigiosa, traboccante di galassie delle più svariate forme, dimensioni e colori, tuttora nota come Hubble Deep Field, che da sola diede i natali a circa quattrocento articoli scientifici. Questo fu anche il punto di partenza per nuove e, col progredire degli strumenti tecnologici a disposizione, sempre più impattanti osservazioni che si concretizzeranno con l’acquisizione dello Hubble Ultra-Deep Field nel 2004, dello Hubble eXtreme Deep Field nel 2012 e dello ABYSS Hubble Ultra Deep Field nel 2019. Quest’ultimo, ottenuto grazie a un innovativo processamento, ci dimostra come non siano solo importanti gli occhi con cui osserviamo un fenomeno, ma anche l’elaborazione dell’immagine stessa.
Hubble Ultra Deep Field: l'immagine in luce visibile più profonda mai realizzata dell'Universo, ph. R. Williams (STScI), il team Hubble Deep Field e NASA/ESA
In questo senso, gli strumenti che la tecnica ci mette a disposizione sono come una estensione dell’occhio con cui scrutiamo il mondo, ma non col distacco di una lente morta, bensì con l’avidità e la potenza di un organismo che si ingegna a varcare i propri limiti alla ricerca inesausta della propria sopravvivenza. Noi, nella scienza, siamo come il cyborg di Donna Haraway.
Il cyborg non riconoscerebbe il giardino dell’Eden: non è nato dal fango e non può pensare di ritornare polvere.
Siamo miscugli di carne e tecnologia, carichi di un potenziale rivoluzionario e di forza emancipatoria, che superano il limite della vita naturale ma, così facendo, si ritrovano anche a contatto con il confine della dicotomia vita / non vita: cosa è naturale e cosa artificiale? Qual è la barriera che separa gli altri animali da noi? Quali i nostri simili e quali le creature che si possono lasciare ai confini del pensiero perché, qualsiasi cosa facciamo, non li raggiungeremo mai?
“Pòscia più che il dolor potè il digiuno”. Così Dante chiude il racconto che ha come protagonista il conte Ugolino della Gherardesca, nel XXXIII canto dell’Inferno. Una delle interpretazioni sostiene che questo verso lascerebbe intendere un atto di cannibalismo verso i figli già morti, spinto dalla fame impostagli come condanna: un atto che definiremmo certamente contro natura, reso possibile da condizioni esterne estreme.
ABYSS Hubble Ultra Deep Field, Instituto de Astrofísica de Canarias. Borlaff (Alejandro Borlaff et al.)
Allo stesso modo, l’umanità crea continuamente – e inconsapevolmente – pressioni di selezione naturale per le altre creature: per esempio, ha talmente riempito l’ambiente di plastica che alcuni batteri, in mancanza di meglio, hanno sviluppato la capacità di digerirla. Come affronteremo le sfide del futuro? Anche durante l'esplorazione extraplanetaria proseguiremo a considerare le condizioni al contorno del nostro operato come trascurabili, same old business as usual?
In ultima istanza, qual è l’anima della scienza? Lo riassume bene il compositore Terry Riley: “Quando ascolti rigorosamente un pattern che è ripreso continuamente, esso a un certo punto incomincia a subire una sorta di cambiamento sottile perché nel frattempo sei tu che stai cambiando”.
Allo stesso modo il contenuto e il metodo della scienza cambiano, come un progressivo e simultaneo approfondirsi dello scavo e allargarsi della visuale, ma le costanti sono (almeno) due: l’ardore indefesso di von Humboldt che scala il Chimborazo con la cassa dei suoi strumenti grazie alla forza della convinzione che la natura sia uniforme e la si possa paragonare nei quattro angoli della Terra, e che la distanza tra l’Himalaya e le Ande non sia altro che un breve balzo, nella mente di chi vuole trovare delle analogie profonde per scoprire la norma comune, la chiave che fa scattare la serratura come la rivoltella con la pallottola; e la necessità di lasciarsi alle spalle le idee sbagliate, anche quando brucia, quando non si è disposti a sacrificare con loro una vita di sforzi a comprendere qualcosa che continua a sfuggire, come è accaduto al sistema tolemaico, in cui gli epicicli hanno continuato a moltiplicarsi per secoli prima di lasciare il passo definitivo al sistema copernicano.
Riflettere su ciò che ancora non sappiamo di non sapere è, quindi, interrogarsi su quanto siamo disposti, come singoli e come società, a lasciarci sradicare dalle idee rassicuranti del nostro orizzonte materiale e culturale, come Darwin nell’istante in cui realizza che la sorte dell’umanità è simile a quella di tutti gli altri viventi, con il suo inizio, le sue traiettorie, e la sua fine.
Crediti
Articolo a cura di G. Colombo del corso di dottorato in Medicina Molecolare e Traslazionale (Dimet) e postdoctoral researcher presso l’IIT, L. Rossi e E. Perciballi e Prof.ssa P. Branduardi del corso di dottorato in Tecnologie Convergenti per Sistemi Biomolecolari (TeCSBi)