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Triennale Milano
La Veronal, Firmamento, foto di Lorenza Daverio

In che modo l'IA sta trasformando il teatro?

10 gennaio 2025
In che modo l'intelligenza artificiale sta trasformando l'attività teatrale? Con gli spettacoli presentati durante il festival FOG 2024, i coreografi Wayne McGregor e Marcos Morau – artista associato di Triennale Milano Teatro per il triennio 2025-2027 – e la compagnia Agrupación Señor Serrano hanno sperimentato con l’IA e creato ambienti immersivi sul palcoscenico del nostro teatro.
A inizio Novecento ci si aspettava, con ottimismo, che gli impatti della rivoluzione industriale sarebbero stati fulgidi e dirompenti. Una furia di entusiasmo nei confronti della “macchina” come produttrice di velocità e generatrice di energia dilagava, come testimonia, ad esempio, la redazione del Manifesto del Futurismo (1909) che faceva del corpo umano – solo parzialmente abile – una metafora dell’automobile. L’uomo nuovo idealizzato agli inizi del secolo era il frutto di un innesto chirurgico capace di vivere in un corpo non più animale ma metallico, e di un dinamismo che riqualifica i concetti di spazialità e temporalità – in questo senso il Futurismo pare incarnare la definizione di dromologia di Paul Virilio come scienza che si occupa della “logica della velocità” (Vitesse et politique, 1977). Queste aspettative rivoluzionarie di un corpo addomesticato come conduttore di un’azione collettiva (come nel caso della guerra che da lì a poco avrebbe imperversato in Europa), erano controbilanciate dalle intuizioni distopiche sui pericoli dell’ideologia tecnica, soprattutto da parte degli artisti. Si pensi, ad esempio all’analisi dei sogni secondo Carl Gustav Jung o all’eloquente racconto breve di Edward Morgan Forster The Machine Stops (1909).  Il mondo immaginario di Forster è inabitabile: ridotto in cenere, i pochi superstiti vivono isolati, reclusi in celle sotterranee dentro una Macchina soggiogatrice. Passare per la Macchina (per l’Instagram?) è necessario per mantenere qualsiasi contatto con l’esterno, a cui accedere solo attraverso ologrammi e messaggi: i contatti sono migliaia, ma non è possibile stabilire alcuna relazione significativa a causa della frenesia con cui gli abitanti adorano e interagiscono con la Macchina stessa. Il suo brusio è l’unico spirito del tempo tollerato.
Company Wayne McGregor, UniVerse: a Dark Crystal Odyssey, foto di Lorenza Daverio
A più di cento anni da quei lampi prefigurativi, pare quanto mai necessario interagire con – c’è chi dice “regolamentare” – la Macchina, insomma, fare i conti con l’Intelligenza Artificiale Generativa. È divenuta quasi ossessiva, infatti, la domanda su quale possa essere la miglior convivenza possibile con questo strumento, dando voce al timore di lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo che si chiedono che ne sarà delle loro professioni quando la Macchina farà a meno dei loro input. Anche l’arte nutre questo stesso timore? Ebbene, alla base dell’IA ci sono reti neurali convoluzionali, quindi disegnate pedissequamente sul funzionamento del cervello umano. Così, ad esempio, si sviluppa il programma di elaborazione di immagini DeepDream, ovvero come una sorta di allucinazione (si noti che questo è un termine tecnico che indica formalmente gli output prodotti dall’IA e in contraddizione oggettiva con i dati forniti come input): in sostanza il programma vede quello che non c’è a partire da un dettaglio, si potrebbe dire che immagina qualcosa. Tuttavia, il suo processo creativo è standardizzato perché si basa su un sistema di completamento di frasi – per farla fin troppo semplice, ad esempio: ho voglia di mangiare A) una mela; B) un tavolo; C) il mio gatto. Così, la cosiddetta arte dell’IA prende il reale, come un artificio, lo sfoca: non cambia lo sguardo, ma usa una specie di “visione periferica laterale”, per adoperare un linguaggio tipico dell’arte scenica.
Company Wayne McGregor, UniVerse: a Dark Crystal Odyssey, foto di Lorenza Daverio
Tuttavia, a prescindere dal dibattito sulla natura dell’ispirazione per ora l’IA generativa non può sopperire alla peculiarità dello spettacolo dal vivo, e cioè all’elemento vitale: i corpi vivi. Fulgidi esempi di sperimentazione artistica con l’IA si sono apprezzati nella scorsa stagione di FOG. Infatti, si è potuto assistere al teatro in Virtual Reality, già sperimentato da qualche anno e in contesti come la Biennale di Venezia. In particolare, l’IA è stata usata per costruire ambienti immersivi come quelli proposti dalla Company Wayne McGregor per UniVerse: a Dark Crystal Odyssey. I danzatori, in un’eco al Manifesto del Futurismo di cui sopra, hanno ricreato una distopia eco-mitologica in cui si sono già pienamente dipanati anche gli effetti del cambiamento climatico.  Seguendo le coreografie che recano l’impronta surrealista di McGregor, i danzatori impersonano i sopravvissuti di un futuro che è già presente: nella stanza percorsa da rumori assordanti, nell’area sulfurea e asfittica, nell’immersione assoluta di tutti i presenti nella stanza che è il mondo-che-verrà.  In una osmosi tra digitale e reale, questa Odissea nerissima si propone come un viaggio multimediale e sensoriale necessario per risvegliare la capacità immaginativa dell’uomo: McGregor, con il regista Ravi Deepres e le sonorità di Joel Cadbury, svela con ferocia una possibile meta collettiva.
Agrupación Señor Serrano, Una Isla, foto di Lorenza Daverio
Gli strumenti di IA generativa possono potenziare l’elemento cross-mediale degli spettacoli, incoraggiando gli artisti a cimentarsi nella generazione di immagini atte a riprodurre fedelmente, ad esempio, il proprio concept, come fa Kamilia Kard con i suoi giardini erotici artificiali, oppure a ribaltare l’approccio esistenziale alla performance. Nel caso di Agrupación Señor Serrano, lo spettacolo Una Isla affronta la “filosofia della macchina”. L’autore e performer mette in pratica la domanda di fondo attorno alla quale si articola la reticenza verso l’IA generativa: come può l’essere umano coesistere con la tentazione di affidarsi a una macchina costruita a propria immagine e somiglianza? Lo spettacolo di Serrano ha la capacità di scuotere le fondamenta esistenziali del contemporaneo, perché lascia uno spazio di imprevedibilità al machine learning, facendo sì che anche la performance sia inaspettata nei suoi sviluppi. Nella scrittura artificiale di Serrano ricompare il tema dell’individuo del futuro, del sopravvissuto solitario, del Robinson Crusoe del tempo che verrà. Schiacciati dall’annoso esercizio del libero arbitrio, incapaci di sostenere l’impegno della relazione con l’altro umano altrettanto sfiancato, ci si rispecchia e ci si vede tutti sull’isola, affidati a un “dio” non cristiano, non pagano, non la Provvidenza né il Caos, ma l’IA.
La Veronal, Firmamento, foto di Lorenza Daverio
La Veronal, Firmamento, foto di Lorenza Daverio
E c’è infine un terzo modo per elaborare artisticamente e concettualmente il tema dell’IA: renderla manifesta e visibile, non solo sul piano sonoro come per Serrano, ma nella sua primissima visualizzazione dentro l’immaginario collettivo. Marcos Morau si riconferma un maestro nella creazione di atmosfere ucroniche in cui presente, assoluto futuro e scenari vintage si mescolano, stimolando uno spaesamento quasi nauseante. Mentre ci si lascia cullare da una malinconia pseudo-analogica, ci si ritrova esposti alla stilettata di Firmamento, che prende le coscienze e le scaglia nell’inconcepibile, nell’immensità dell’universo, che mentre annichilisce l’osservatore, sembra concepibile per l’IA. Morau disvela l’entità, creando con La Veronal un gruppo di sei marionette umane e artigianali di cavi e visiere, e senza pregiudizio ne indaga gli effetti. Tra i barlumi di ricordi di giochi e amori infantili, si insinua lo standard, il gesto ripetuto che si sfracella come la consapevolezza, il robot che si ricorda di guardare la volta celeste.