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Triennale Milano
Janardhana Balaji on Unsplah

FOG: un'elegia nebbiosa

8 febbraio 2023
Il nome del nostro festival di performing arts FOG è un omaggio alla nebbia milanese, ma anche segno di scoperta e sorpresa, un paesaggio dove i sensi si amplificano, la visione si fa poetica e incerta, i confini disciplinari mutano, la dimensione temporale sospesa lascia spazio all’ascolto e alla riflessione.
Quando esco dall'aeroporto di Chennai sono le 4.25 del mattino. Sono l'ultimo viaggiatore dell'ultimo volo dall’Italia, mi sono attardato a cercare di capire dove fosse finito uno degli zaini del nostro gruppo, probabilmente rimasto a Doha. Fuori dalle vetrate, la prima cosa che noto sono centinaia di persone al di là della transenna di metallo. Centinaia. Ma quando si apre la porta sento solo un grande silenzio, anche se tutti chiaramente sono lì con l'idea di offrirmi servizi a pagamento. Mi guardano e non dicono niente, io mi fermo e allora mi accorgo di un'altra cosa, ancora più inaspettata: la nebbia, piuttosto fitta, che spunta alle spalle delle persone e nasconde la prima fugace immagine dell'India. Un'immagine che non c'è. Un'immagine invisibile, di cui cercherò sempre, senza successo, il ricordo.
Illustrazione per FOG 2023, artwork Alessandro Gottardo
"L'invisibile – scrive Roberto Calasso nel suo libro dedicato a Kafka – ha una beffarda tendenza a presentarsi come il visibile, quasi si distinguesse da tutto il resto soltanto per via di particolari circostanze, come il diradarsi di una nebbia. Così si è indotti a trattarlo come il visibile, e subito si viene puniti. Ma l'illusione rimane". Per Calasso, e forse anche per Kafka, l'invisibile invece è altro, è sostanza e non accidente, è la dimensione insondabile. È una nebbia che non si dirada, anzi, che appare nella sua massima intensità, come accade a volte guardando fuori dal finestrino di un aereo pochi secondi dopo il decollo, quando, lasciati i campi verdi e i margini delle città in pieno giorno, si fa improvvisamente buio e ogni dettaglio conosciuto scompare dentro una delle nuvole più basse, o dentro un banco di nebbia. Sono pochi minuti, di solito, nei quali però, come direbbe Ben Lerner, il mondo si ricombina intorno a noi e l'invisibile ci manda cablogrammi da un'altra dimensione. Che è quella, se siete lettori di fantascienza classica, della totalnebbia di Fredric Brown, una sorta di coprifuoco ambientale che caratterizza il mondo parallelo di Assurdo universo, uno dei capolavori della science fiction americana, uscito nel 1948, lo stesso anno in cui George Orwell scrisse 1984, tanto per dire.
Olafur Eliasson, Beauty, installation view Palazzo Strozzi, © Ela Bialkowska OKNO studio, courtesy Palazzo Strozzi
"Era come camminare in un armadio, un'oscurità nell'oscurità", dice il protagonista Keith Winton, quando  si imbatte per la prima volta in un banco di nebbia. È come attraversare certe opere di Carsten Höller, possiamo dire noi oggi, quei corridoi completamente bui che, se si è fortunati, a un certo punto sbucano in una stanza da sogno, circondati da funghi enormi e rotanti appesi a testa in giù. Oltre la totalnebbia, insomma, un po' di follia. La stessa che coglie molti dei protagonisti di Cecità di Josè Saramago, altro grande romanzo sull'irrazionalità novecentesca: ma qui, a differenza di Brown, la perdita della vista non porta all'oscurità, ma a un biancore ancora più inquietante, a una vera e propria nebbia chiara e impenetrabile; la nebbia del nostro sconcerto, avrebbe potuto dire il Riccardo III di Shakespeare.
© Leonardo Merlini
Le foschie, fisiche e morali, tornano spesso nella grande letteratura: accompagnano le albe dei marinai del Pequod in Moby Dick, anche se nel romanzo di Herman Melville a essere lucidamente offuscata è soprattutto la mente ossessiva del capitano Achab, più demoniaco del demone bianco (ancora la bianchezza, come in Saramago, una bianchezza terrorizzante) che insegue disperatamente. La nebbia attraversa tutta l'opera di Joseph Conrad: la troviamo nei porti delle storie di mare e di costa; la troviamo in Cuore di tenebra, lungo il corso del fiume Congo, risalito per andare a cercare Kurtz, vero e incommensurabile fantasma di quell'incubo collettivo europeo che è stato il colonialismo. La nebbia e il Tropico, l'abbinamento è solo apparentemente stravagante, e ci ho pensato a Chennai, ma anche nelle foreste del Madagascar, mentre vedevo scendere per le prime volte la sera sull'emisfero australe. Succedeva anche nella capitale, Antananarivo, ma era colpa dei gas di scarico azzurrognoli delle tantissime Renault 4 che riempivano le strade, una nuvola che una volta aveva avuto l'odore del progresso, ma ormai nessuno ci credeva più.
Frame del film White Noise, courtesy La Biennale di Venezia
L'odore non lo sentivano i soldati della Prima guerra mondiale sul campo di battaglia di Ypres, ma la nebbia che li aveva improvvisamente raggiunti era un gas, era un'arma chimica spaventosa, che soffocava e uccideva. Qualcosa di simile all'Evento Tossico Aereo al centro di Rumore Bianco, il romanzo del 1985 in cui Don DeLillo racconta, con un certo anticipo e comprovata lucidità, la società che saremmo in breve diventati, soffocati non dall'iprite, in questo caso, ma dalla tecnologia. "L'enorme massa scura - scrive DeLillo - si muoveva come la nave dei morti di una leggenda norrena, scortata nella notte da creature con armatura e ali a spirale. Non sapevamo come reagire. Era una cosa tremenda da vedere […] Ma era anche spettacolare, parte della grandiosità di un evento travolgente". Sensazioni simili deve averle provate anche Adam Jeffson, che porta il nome del primo uomo ma nei fatti sarà l'ultimo sulla terra, protagonista del  romanzo La nube purpurea di Matthew P. Shiel. Opera visionaria e folle pubblicata nel 1901, racconta una fine del mondo dovuta proprio al misterioso apparire di una nube rossastra, che lascia dietro di sé un piacevole profumo di pesca, ma anche milioni di corpi morti.
Olafur Eliasson, Tate Modern, Londra, Christer Ehrling on Unsplash
Nessuno invece moriva, per fortuna, alla Tate Modern, nella grande sala nella quale Olafur Eliasson aveva creato un nebbioso ambiente arancione, tra le sue installazioni più famose. Ma forse attraversare la nube purpurea di Shiel sarebbe stato simile, almeno a livello di percezioni visive. Molto diverso il rapporto tra queste apocalissi (compresa quella climatica di cui Eliasson si è occupato anche con la mostra di Palazzo Strozzi a Firenze) e un'altra nube: la medievale Nube della Non Conoscenza, che riduce lo spazio al tentativo di comprendere razionalmente il mondo e sposta la partita sul terreno della pratica esperienziale del misticismo. Nubi, nebbie, silenzio, rivelazioni. Ogni cosa potrebbe essere illuminata, ma in realtà la bellezza deriva proprio dalla sfocatura del nostro guardare giudicante. Senza giudizio, le possibilità brillerebbero.
Ho scritto. Ho parlato di queste nebbie per introdurre  FOG festival 2023 di Triennale Milano. Ma l'ho fatto anche per tornare a Venezia, sedermi sulle fondamenta delle Zattere e guardare verso la Giudecca, sperando che la foschia si diradi, lasciandomi intravedere le luci di Palanca o la chiesa del Redentore. Non è successo invece, e allora anche io dopo un po' di tempo mi sono alzato e me ne sono andato zitto, tra gli uomini che non si voltano, con il mio segreto. Sapendo che, grazie alla nebbia, avrei potuto immaginare più forte.