© Andrea Macchia
Sulla pista del buio: in dialogo con Annamaria Ajmone
1 aprile 2022
Un dialogo tra la ricercatrice Giada Cipollone e la coreografa e danzatrice Annamaria Ajmone, anche artista associata di Triennale Milano Teatro.
Dal buio emerge una scena. La condizione di incertezza visiva attiva altri sensi e la capacità dell’immaginazione di relazionarsi altrimenti. L’articolo tenta un attraversamento del tema del buio, seguendo la pista di La notte è il mio giorno preferito di Annamaria Ajmone, in scena a FOG Triennale Milano Performing Arts il 6 e il 7 aprile. Tra tracciamenti e incontri, tentativi e fallimenti, il lavoro esplora il rapporto con l’altro, animale, vegetale, non umano. Un ecosistema nascosto che viene abitato e lascia tracce, soprattutto di notte.
Condizione di emersione della scena, il buio è un luogo di apertura e sperimentazione per il sistema percettivo. Impone un tempo di sosta, di sospensione, che ridisegna la gerarchia dei sensi: la ritirata della vista prescrive una nuova configurazione dello spazio, che sottratto al controllo dell’occhio viene associato all’incerto, alla paura, ma anche ai sogni, alle trasformazioni e ai rovesciamenti. In sala, l’assenza di luce allestisce una soglia, una transizione dal reale quotidiano al mondo nascosto e possibile che prende corpo sul palco. Imitando l’aspetto della notte, il buio azzera le informazioni e prepara incontri altri, interdetti all’abitudine del giorno.
Due forze, quelle del giorno e della notte, che si compensano e si fronteggiano, in modo impari, con armi e strategie opposte: da una parte quelle invadenti e accecanti della luce, dell’io, del fare e dell’attività, dall’altra quelle marginali e resistenti del buio, dell’altro, del silenzio e dell’attesa. Cosa succederebbe se, in una controffensiva, il rapporto di forza si rivoltasse?
© Andrea Macchia
“La notte è il mio giorno preferito” è un passo di una lettera di Emily Dickinson, scritta nel silenzio e nella solitudine della stanza oscura in cui aveva deciso di ritirarsi, affetta da fotofobia. Se la luce è un agente patogeno, il buio è un luogo sicuro e accogliente, che attiva – quando “il ticchettio del mondo si arresta” – altre modalità della poesia per pronunciarsi, per creare, per intercettare nuove forme di relazione e desiderio.
Evocazione da Dickinson, La notte è il mio giorno preferito è il titolo del nuovo lavoro di Annamaria Ajmone, in scena a FOG Triennale Milano Performing Arts il 6 e il 7 aprile. Immaginata e realizzata con Natália Trejbalová (artista visiva), Stella Succi (ricercatrice), Giulia Pastore (light designer), Jules Goldsmith (costumista), Flora Yin-Wong (sound artist), l’opera nasce dal desiderio di esplorare il rapporto con l’altro. Un altro non umano, animale e vegetale, a cui si guarda non come a un paesaggio da conquistare e fotografare, in un’ottica turistica, ma come a un ecosistema nascosto, da co-abitare.
Per preparare lo spettacolo, il gruppo ha organizzato una residenza nei territori di Val d’Illiez e del Giura, in Svizzera: per relazionarsi con l’ambiente, la ricerca non ha seguito la logica domenicale dell’escursione, ma sperimentato la pratica continua e notturna del tracciamento. Descritto da Baptiste Morizot in Sulla pista animale, il tracciamento è un esercizio per “attivare in sé i poteri di un corpo differente”, attraversare il territorio, prendendo in prestito in senso non appropriativo il corpo e la prospettiva di un altro, che configura il mondo diversamente. Allo stesso modo, facendosi tentare da alcune piste, l’articolo prova a seguire, senza fare rivelazioni, alcune tracce sottili de La notte è il mio giorno preferito, (dis)orientandosi in maniera libera e parziale tra le letture e le parole donate in dialogo da Annamaria Ajmone e i documenti visivi e sonori che sul sito dell’artista creano un archivio interattivo e in movimento.
"Se la luce è un agente patogeno, il buio è un luogo sicuro e accogliente, che attiva altre modalità della poesia per pronunciarsi, per creare, per intercettare nuove forme di relazione e desiderio."
© Andrea Pizzalis
Pista 1
Durante il lockdown viene inaugurata, nell’ambito di un altro progetto, la pratica di un richiamo notturno: con la luna piena un gruppo di persone si affaccia dalla finestra di una stanza oscura per ululare. Primo ritrovamento: un ululato. È l’ipotesi di un incontro con l’altro non mediato dai codici classici della comunicazione, ma da altri segni, non meno relazionali. Secondo ritrovamento: Il partito preso degli animali di Jean-Christophe Bailly invita a non considerare la porzione di mondo notturna fuori dalla finestra come un’immagine visibile, ma come una vibrazione, a cui accedere deponendo il modo umano di guardare e ascoltare. Scombinare i sensi, il visibile e l’invisibile: gli animali non si sottomettono a regimi di visibilità integrale e incondizionata, lì dove li vorrebbe lo zoo, ma frequentano l’intimità del nascosto. Stare in un tempo lungo di attesa, appostarsi, aspettare versi, suoni, spostamenti e sfioramenti minimi: un’orma, chiara o latente, apre in ogni caso un sentiero percorribile.
Pista 2
Una pausa, uno stacco, un buio totale che taglia a metà. Primo ritrovamento: un puntatore rosso. I parchi di notte sono sorvegliati da telecamere, che riprendono i differenziali di calore tra i corpi, registrando i contrasti. Un oggetto usato anche nei tracciamenti e che ha origine militare, è impiegato per il controllo dei confini. Queste immagini calde ricordano che non c’è nulla di innocente e romantico nel tracciamento, la natura non è un ideale classico.
Secondo ritrovamento: gli occhi del lupo. Tracciare implica l’essere tracciabili, è una pratica a-gerarchica, simmetrica. I lupi cuccioli rispondono agli ululati come a una seduzione infantile, gli adulti no, ma seguono la pista sonora. E si avvicinano, anche di molto: il lupo, scrive Morizot, possiede “l’arte prestigiatoria della misdirection, del depistaggio”, non ha paura di avvicinarsi perché, in ogni momento, può scomparire facendo perdere le sue tracce. Se accade l’incontro, il lupo come altri animali guarda spontaneamente negli occhi. Non un pezzo casuale del corpo: gli occhi al buio sono solo buchi, elementi materiali comuni a tutti gli animali che guardano. Poi qualcuno scappa o scompare.
Pista 3
Il fascio di luce rossa mobilita la fuga, la danza, il lavoro sul corpo. Ogni movimento è un tentativo di divenire, provare e mollare. Come divenire l’altro senza rappresentarlo, senza imitarlo, senza ricostruire con l’immaginazione, quale scarto tra la pratica e il rifare: una questione tecnica. Arte felice del fallimento. Il tentativo dura per un tempo, dopo si spezza e ricomincia. Tracciare significa soprattutto andare per tentativi, il tracciamento non è una scienza esatta, non ha il desiderio di concludere ma di cercare ulteriormente. Non c’è un inizio e non c’è una fine, solo un’interruzione: il corpo non diviene altro che se stesso.
Un unico ritrovamento: la lingua. Segno materiale ma anche simbolo del linguaggio, la lingua fuori. Un limite, una costrizione fisica che organizza il pensiero del corpo e del movimento, detta senza parlare un modo di costruire. La lingua è l’organo tattile del picchio, percepisce il tronco con un semplice tocco: questo ricordo diventa un espediente di attivazione. Una tecnologia che innesca il desiderio di una mutazione. E questa è l’ultima traccia.
© Andrea Pizzalis