© Julian Mommert
Quello che ho pensato (su INK di Papaioannou)
17 febbraio 2023
C'è un momento, pochi istanti prima che si alzi il sipario, nel quale si assiste alla transizione tra due mondi. Quello della sala – dove ho notato, seduto, poche poltrone più in là, il famoso artista dissacratore e il regista pluripremiato del nuovo cinema italiano – si eclissa rapidamente e inizia a sorgere il mondo vero, quello che procede dal palco. In quel tempo di passaggio, che è un frammento di possibilità e incertezza, un T con zero che informa l'esperienza teatrale che sta per iniziare, trattengo il respiro e aspetto di capire che cosa sarà di me, del me spettatore, tra pochi secondi, quando tutto sarà cambiato e a dominare il mio cuore e i miei pensieri sarà lo Spettacolo, in questo caso INK, "play for two" di Dimitris Papaioannou, scritto nel 2020 e portato a Milano per l'inaugurazione di FOG Festival in una versione rinnovata.
© Julian Mommert
This is Major Tom to Ground Control
I'm stepping through the door
And I'm floating in a most peculiar way
And the stars look very different today,
cantava David Bowie.
Il filosofo francese Guy Debord scriveva che lo spettacolo – inteso come manifestazione suprema della società capitalista – è "il momento storico che ci contiene". Attraversando la soglia che separa il me giornalista, arrivato in anticipo in Triennale per ritirare il proprio accredito e sedersi al posto numero 6 della fila H del teatro, dal me ancora imprevedibile che sarà invece lo spettatore trascinato dentro le visioni dell'artista greco, seduto soltanto sopra le proprie sensazioni di visitatore di quella storia, in quel punto in cui "tutto cambia", cambia anche la prospettiva con la quale penso alla frase del filosofo francese. E sono io, felicemente, a desiderare di essere completamente contenuto in quel momento storico a se stante che l'opera di Papaioannou mi promette di essere, fin dalla prima immagine che distinguo al di là del sipario.
Un uomo, vestito di scuro, di schiena, sotto un getto d'acqua che proviene dalla sua destra, in un mondo delimitato da panneggi grigio-argentei che oscillano nel vento. L'uomo è fermo, le cose inanimate si muovono. Si comincia così, dove si arriverà, anche ora che lo spettacolo è finito, non saprei dirlo.
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In pochi secondi l'opera ha definito le proprie regole. Io ho cercato di tenere il passo, di vivere dentro la performance, per quanto possibile; di essere me stesso in condizioni completamente cambiate. Ho cominciato a pensare e al tempo stesso ho lasciato che tutto quello che non sapevo continuasse ad aleggiare libero, tutto intorno. (Unknown Unknowns, lo diceva l’Esposizione Internazionale che ha avuto luogo proprio qui sopra: le lezioni ci restano addosso, se siamo abbastanza fortunati). Ho pensato al rumore di quella pioggia senza fine; al modo in cui la sua onda d'urto faceva muovere le tende tutto intorno al palco; al fatto che, nella precisione della costruzione scenica, nell'immobilità del personaggio, l'unica cosa viva fosse proprio l'acqua. Le parole e le cose, scriveva Michel Foucault, ma qui, nel mondo di INK, sembrano esserci solo le cose. L'acqua scorre come il Tempo, mi sono detto, ma non so bene che cosa intendessi, probabilmente solo che avevo deciso di lasciarmi trascinare da questo scorrere, come in un fiume di Giuseppe Ungaretti.
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Papaioannou è sulla scena, è lui l'uomo vestito che compie gesti rituali. È lui, secondo il foglio di sala, "il guardiano di un universo oscuro e sommerso, impegnato nel tentativo impossibile di mantenere l'ordine". Si muove lentamente, con ostinata convinzione. Lo fa perché in fondo, come mi ha detto mentre lasciavamo il teatro un'artista che ha lavorato con lui anni fa, è un pittore, prima che un regista. Mentre me lo dice, io mi rendo conto che più volte, dalla mia poltroncina, ho pensato a dei quadri: lezioni di anatomia, un Cristo morto, un'installazione di John Baldessari, i fiamminghi…
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Quando poi sulla scena arriva il secondo protagonista del duetto, "l'uomo nudo", interpretato dal danzatore tedesco Šuka Horn, la pittura si muove insieme ai due corpi: rimanda a battaglie e a deposizioni, alla sconvolgente mediazione dello schermo (la lastra di plexiglass che accompagna la lunga fase iniziale del "combattimento" tra i due uomini è meravigliosa, ho pensato, straordinariamente contemporanea nel suo essere una forma di difesa e di isolamento, una protezione e una condanna). Il ritmo è sfibrante, ma restituisce il senso dei cambiamenti che succedono: incontro, ostilità, desiderio. Ho pensato a Mark Fisher, all'idea di desiderio post-capitalista, che va oltre le logiche del suo Realismo. Ma poi, anche qui, alla fine ha prevalso la pulsione distruttiva, il divorare, il possedere, lo spirito della Storia, direbbe forse un lettore di Hegel. Da qualche parte, però, ci deve essere stato anche amore.
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Dov'è la danza, mi sono chiesto. Dove. Nell'acqua e sulle pareti, mi sono risposto. Il mondo che non siamo noi. Il mondo senza di noi.
Ho pensato a certe immagini di Dante, perché c'era qualcosa del Purgatorio (forse visto più dalla prospettiva del folle volo del suo Ulisse rispetto a quella del luogo in sé, ma la sospensione delle anime, quella sì, corrispondeva); ho pensato alla forza di una nascita, al suo potenziale di creazione e di orrore; ho pensato al Saturno di Francisco Goya che divorava i suoi figli, ma anche al "Bambino delle stelle" di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Verrà una salvezza, ma non la capiremo. Secondo i critici nell'immaginario di Papaioannou, che è anche autore di fumetti, ci sono i film di genere, horror e fantascienza: allora ho pensato che quei tubi rosso brillante, che hanno condotto l'acqua e sono poi serviti per un vero e proprio passo a due sospeso tra danza classica e circo (che forse Fellini ci ha insegnato essere la stessa cosa, come poetica… chissà), ho pensato che avrebbero anche potuto essere i capelli di una Medusa immaginata dalla Marvel, riemersa dalle oscure profondità dei nostri sensi di colpa in salsa blockbuster.
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Ho pensato al potere scultoreo dell'acqua: a un certo punto, in un momento scenico che ho identificato come "ascensione", mi è sembrato di essere letteralmente dentro un'opera di Bill Viola, vivo dentro una forma dell'immaginario (anche qui con la mediazione, di secondo livello, questa volta, di uno schermo). Ho amato molto la foresta, quando è comparsa, perché ancora una volta ha dato una risposta scenografica forte all'essere perduti dei protagonisti. Ai margini della foresta, ci siamo seduti e abbiamo visto tutta l'ampiezza del nostro fallimento. Forse abbiamo pianto. A suo modo tutto ciò è commovente, seppur tragico. Ho pensato, da storico di formazione, che la Storia è un grande incubo inutile e che tutto lo spettacolo, ormai giunto alla fine, fosse una devastante impresa teatrale tesa verso l'ammissione di una Sconfitta, con la maiuscola, totale e generica. Ho pensato che poterla vedere è stata una fortuna. Esserci, vedere, provare a pensare. Alla fine il cronista poco altro fa.
© Julian Mommert