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Triennale Milano
mangiarotti-ritratto
Courtesy Archivio Angelo Mangiarotti

La persistenza della forma. Mangiarotti designer 

1 febbraio 2023
L’attività del grande progettista milanese nell’ambito del design è stata eclettica e variegata, con due costanti: un segno inconfondibile e il ritorno ad alcune ossessioni formali, che però viaggiano sempre di pari passo a una rara conoscenza dei materiali e delle loro proprietà. 
Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti, Mod. T2, serie Secticon, 1956, Le porte Echappement Universel S.A., © Triennale Milano - Collezione permanente, foto Gianluca Di Ioia
I mobili e gli oggetti disegnati da Angelo Mangiarotti nel corso di oltre sessant’anni di attività, culminata con riconoscimenti importanti come il Compasso d’Oro alla carriera (1994), sono tra i più riconoscibili della storia del design. Come quasi tutti gli osservatori hanno messo in evidenza, è possibile rintracciare una serie di forme elementari, archetipiche, che ritornano a più riprese nei suoi progetti, applicate a scale e con funzioni diverse. Il fungo, oltre a ispirare il celebre serbatoio idrico alto cinquanta metri progettato nel 1961 nella campagna romana, si ritrova per esempio nel profilo dei gusci in plastica che rivestono la meccanica degli orologi disegnati per Secticon tra il 1955 e il 1965 insieme a Bruno Morassutti, uno dei primi successi sul piano internazionale.
Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti, Mod. T2, serie Secticon, 1956, Le porte Echappement Universel S.A., © Triennale Milano - Collezione permanente, foto Amendolagine Barracchia
O ancora nelle lampade in vetro soffiato Saffo e Lesbo ideate per Artemide nel 1966 e in tutta una serie di vasi e contenitori. Ai pilastri a tronco di cono usati in diverse architetture fanno da contrappunto le gambe in marmo dei tavoli della serie Eros (prodotti dai Fratelli Brambilla nei primi anni settanta e rieditati da Agape in tempi più recenti), che accolgono e bloccano il piano grazie a un inedito e ingegnoso giunto a incastro basato sull’azione della forza di gravità.
Angelo Mangiarotti, Schizzo per la lampada Saffo, 1966, courtesy Archivio Fondazione Angelo Mangiarotti, © Triennale Milano, foto Gianluca Di Ioia
Queste forme – semplici all’apparenza ma in realtà sofisticate, e inconfondibili – non derivano da una ricerca di autorialità o dal tentativo di imporre una propria firma a tutti i costi; al contrario, discendono da un processo lineare di pensiero e spesso rappresentano l’unica soluzione possibile a un determinato problema. “Quando la vedi (la forma, ndr) comprendi la sua logica”, spiega il designer tedesco Konstantin Grcic, intervistato da Davide Maffei per il suo documentario Alfabeto Mangiarotti (2022) a proposito della sua fascinazione per il lavoro del maestro italiano: “Pensi che sia naturale, che debba essere così, e questa è la qualità: quando puoi rimuovere o nascondere l’autore”. 
L’originalità e la delicatezza del tratto in Mangiarotti non sono mai fini a se stesse ma vengono messe al servizio delle necessità del futuro utilizzatore dell’oggetto e, soprattutto, della materia. Alla base della sua pratica c’è una profonda conoscenza della composizione fisica e delle caratteristiche tattili dei materiali, spesso utilizzati in purezza senza mai essere occultati o camuffati, e delle pratiche che ne consentono la lavorazione, in maniera tradizionale o con l’aiuto di nuove tecnologie, apprese grazie anche al tempo passato a stretto contatto con gli artigiani. Il dialogo con i vetrai muranesi, per esempio, porta il designer a definire la conformazione dell’elemento a gancio, ricavato da un nastro di vetro tagliato e stirato a mano  in grado di reggere fino a cinquanta volte il proprio peso, che concatenato con altri moduli identici forma il sistema di sospensione V+V immaginato per Vistosi nel 1967, un grande classico ancora oggi in produzione.
Angelo Mangiarotti, Lesbo, 1967, Artemide, © Triennale Milano - Collezione permanente, foto Amendolagine Barracchia
Nel corso degli anni, Mangiarotti ricorre anche a tecniche arcaiche come la fusione a cera persa del bronzo e all’utilizzo di materiali poco diffusi o in disuso nel design  (come il marmo, che nel dopoguerra aveva perso parte del suo appeal, venendo generalmente associato all’uso che se ne era fatto nel ventennio fascista, o l’alabastro), integrandoli nella produzione in serie e contribuendo al rilancio d’immagine di interi settori artigianali. Spesso è proprio la materia a dirigere il progetto, e al tempo stesso gli stessi criteri progettuali si traducono in forme diverse a seconda del materiale utilizzato. Nel 1978, il già citato sistema Eros, con il giunto a gravità che rappresenta una delle grandi intuizioni costruttive di Mangiarotti viene sviluppato in altri materiali lapidei, come la pietra serena, che però viene lavorata in maniera diversa rispetto al marmo: i blocchi devono essere tagliati, anziché torniti. La lavorazione differente influenza il risultato, e la gamma Incas (da “incastro”) mostra linee più nette, con piani squadrati e gambe a tronco di piramide con sezione trapezoidale. Anche i vasi a forma libera, che sono numerosissimi e compongono una vera e propria costellazione, hanno profili e spessori diversi a seconda della materia di cui sono fatti e delle tecniche di fusione e colatura. 
Angelo Mangiarotti, Eros, 1971, Fratelli Brambilla, © Triennale Milano - Collezione permanente, foto Amendolagine Barracchia
Lo studio approfondito dei materiali consente all’architetto e designer milanese di giocare sul rapporto tra stabilità e instabilità, spingendosi talvolta fino all’estremo delle possibilità plastiche, e di preoccuparsi, in anticipo sui tempi, di aspetti che oggi sono ormai centrali nel dibattito di sistema, come la riduzione degli sprechi. Il tavolo Eccentrico (1979), tutto in marmo, con piano ellittico inserito in una gamba cilindrica inclinata, rimane in equilibrio nonostante la sua asimmetria e la posizione decentrata del piede, grazie a un sapiente calcolo della ripartizione delle forze. Il profilo sinuoso a “l” rovesciata che caratterizza la seduta per esterni Clizia, disegnata nel 1990, è calibrato con attenzione in modo da permettere di ricavare sistematicamente due esemplari dallo stesso blocco di pietra, attraverso un’unica operazione di taglio eseguita con macchine a controllo digitale.