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Triennale Milano
© Alessandro Gottardo – Shout
© Alessandro Gottardo – Shout

Ognuno è bello al follower suo: la metamorfosi nell’era digitale

22 febbraio 2022
Tra il fantasy e l’onirico, l’illustrazione in copertina è stata realizzata da Alessandro Gottardo (in arte Shout) in occasione della quinta edizione del festival FOG Triennale Milano Performing Arts, e ci ha offerto l’opportunità di riflettere sul concetto di metamorfosi.
Dal composto greco di meta e forma che significa “trasformare” (Treccani), la metamorfosi indica, prima di tutto, il processo biofisico che coinvolge costantemente tutta la materia diffusa, dando però alla materia, di volta in volta, una forma particolare. Nella percezione comune, prima ancora di un ragionamento sulla materia, la metamorfosi porta con sé una riflessione sui confini (tra animato e inanimato, umano e non umano) e quindi sul cambiamento, sul divenire nei suoi elementi costruttivi (forme, corpi e identità); cioè sul suo significato simbolico. Nessuno si stupirà allora se la metamorfosi è soprattutto un topos artistico in senso lato, o addirittura un universale poetico. A partire dal mito greco che informa la scrittura dei sedici libri delle Metamorfosi di Ovidio – l’archetipo di tutte le narrazioni in tema, almeno per la tradizione occidentale. Fino a noi, attraverso duemila anni. Sulla tradizione delle metamorfosi e dell’eredità ovidiana si potrebbe dire tanto, ma forse è più interessante comprendere, a questa altezza, come continui e se sia possibile la metamorfosi nella contemporaneità.
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622 (Galleria Borghese, Roma)
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622 (Galleria Borghese, Roma)
L’uomo e l’altro
Partiamo dal mito di Dafne, la quale per sfuggire all’amore del dio Apollo si fa trasformare in pianta d’alloro. Significa una fuga dalla violenza verso la pacificità, dalle dinamiche umane verso quelle inumane. Il tema della trasformazione vegetale è estremamente visibile, per esempio, in Annientamento (Alex Garland, 2018), adattamento del famoso romanzo di Jeff VanderMeer, primo titolo della Trilogia dell’Area X. Il film tematizza in senso conflittuale la trasformazione: in un'area X avvengono dei fenomeni inspiegabili. La natura si comporta come se volesse replicare prima gli organismi animali poi l’organismo umano, in un continuo perfezionamento, fino all’agnizione. I ricercatori che si avventurano nell’area per comprenderla devono vedersela con una serie di fenomeni: plant blindness, ecofobia, perturbante, elementi affrontati da Marco Malvestio nel suo ultimo libro Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene (Nottetempo, 2021). Sarebbero il risvolto, in poche parole, di una visione antropocentrica che ha molta difficoltà ad attribuire una agency, un’agentività, a ogni essere al di fuori dell’uomo.
Alex Garland, Annientamento, 2018 
Ridley Scott, Blade Runner, 1982
Ridley Scott, Blade Runner, 1982
La metamorfosi traduce il tentativo di comprensione dell’altro da sé diventando l’altro da sé. Se è vera la curiosità dell’uomo verso enti in armonia con il cosmo e non in lotta, come invece siamo, questo processo del divenire altro da sé crea uno scollamento niente male, che può ripetersi, con significato simile, nella trasformazione biunivoca tra uomo e animale.
Postumano e postorganico
L’aggiornamento del topos della metamorfosi va di pari passo con i cambiamenti nella società e nella cultura dell’uomo. Nel postumano il corpo viene ripreso come luogo del possibile. Si intende sovvertire l’ordine normalizzante; non c’è mediazione simbolica che dia tregua: il punto è l’ibridazione (parafrasando Teresa Macrì in Slittamenti della performance).
Il postumano ha modelli letterari e in particolare fantascientifici: dal Frankenstein di Mary Shelley – il moderno Prometeo – ai robot della fantascienza. Quelli  di Philip K. Dick smetteranno di credersi diversi dall’uomo scoprendosi (post)umani, a partire dalle sembianze. È qui il potere identitario della questione: fare artificio del proprio corpo, della propria superficie, significa disporne liberamente e andare verso un’esistenza processuale, ormai un’esigenza: in un mondo dove i commons, i beni comuni e il senso comune, opprimono, c’è l’undercommons, la fuga perenne, il cambiamento continuo, la metamorfosi, anche sociale.
Il postumano è “continuato” o addirittura portato all’estremo dal postorganico: dove ”il corpo organico si ibrida con la materia artificiale, diventa alterità incarnata” (Macrì). L’eredità cyberpunk di Donna Haraway disegna un’utopia dove il “mostro”, un segno infinitamente interpretabile, libera dalla immobilità del corpo. Il suo Manifesto cyborg (1991) propone questo “oltrepassamento” all’insegna di un femminismo radicale, mettendo il punto alla distinzione tra naturale e culturale, quindi artificiale, tra organico e inorganico.
Ritratto dell’artista e performer francese Orlan, realizzato dal fotografo Fabrice Lévêque nel 1997
Nel recente Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali Laura Tripaldi pone l’accento sul fatto che potrebbe non esistere – non più, visto che ogni scienza non è il mondo in sé ma un discorso – una discontinuità tra materia inanimata, vita e tecnologia. I materiali “inanimati” hanno una cognizione, e per questo non possono essere altro da noi. Un tassello in più per fare metamorfosi di tutto, queerizzare tutto (il mito di Tiresia è, ovviamente, un mito di metamorfosi).
La metamorfosi digitale
Le avanguardie novecentesche avevano, in qualche modo, già operato metamorficamente sull’immagine, rivoluzionando prima di tutto tecnicamente l’arte. Perciò non ci si deve stupire se, col recupero per lo più inconsapevole delle strategie avanguardiste nella modifica e circolazione dei contenuti digitali (Valentina Tanni, Memestetica), la metamorfosi nell’ultracontemporaneità si esprima anche con l’immagine, con la rappresentazione del corpo e non direttamente con il corpo.
La “svolta digitale” schiude inaspettate possibilità alla metamorfosi. La pratica performativa (artistica in senso stretto o politica), come intuisce Ilenia Caleo in Niente di naturale nei nostri corpi (uscito su “Not”), che agisce sulle realtà trasformandole e la quotidianità digitale permettono una pratica metamorfica diffusa, condivisa e quasi slegata dall’economicità. In entrambi i casi la metamorfosi è un in beetween, un divenire.
Mette Ingvartsen, To come, 2005 (performance)
Face morphing tra i presidenti George W. Bush e Barack Obama
Face morphing tra i presidenti George W. Bush e Barack Obama
Per comprendere la metamorfosi oggi dovremmo studiare la condizione postmediale contemporanea, contraddistinta da una circolazione continua di dati, virale e fatticcia, e da una “simultanea presenza” degli utenti.    
Le immagini manipolate sono cariche di possibilità: vanno oltre ciò che si ritiene la realtà, oltre i limiti del corpo e dell’identità. Come attraverso  un corridoio di specchi alteranti, i filtri che si applicano alla fotocamera dei nostri cellulari nei social media modificano il modo in cui guardiamo noi stessi. Non è un caso che stia passando l’era dei filtri-costume (ad esempio quelli con naso e orecchie da cane), in favore di trasformazioni sempre più verosimili e precise, come il filtro invecchiamento, il filtro per mutare genere, il filtro bellezza, quello che simula trucco, parrucco e addirittura il filtro chirurgia plastica. Viene creato un avatar, un alter ego virtuale, senza la necessità di  un videogioco.
In buona parte dei casi, la metamorfosi digitale non è il trucco di un mago, è  svelata e può essere anche parodizzata. La questione si complicherebbe se il livello tecnico raggiunto da programmi di editing come Photoshop fosse  immediatamente accessibile a chiunque. A quel punto la metamorfosi, essendo disconnessa dall’originale, sarebbe irreversibile. È un po’ quello che accade con il deepfake (parente stretto del morphing), immagini o video del tutto falsi creati sulla base di oggetti digitali reali da programmi algoritmici. I deepfake sono estremamente pericolosi proprio perché impongono il risultato di un processo negando il punto di partenza e il processo, per questo vengono molto spesso utilizzati nelle pratiche di diffamazione, di sopruso e, quasi, di violenza, anche sessuale (si pensi ai deepfake di vip applicati sulle performance di attrici e attori porno).
© Cindy Sherman
La metamorfosi come metonimia
E perché non scomodare anche il primo principio della termodinamica, e l’ovvietà del continuo riciclo del materiale organico, che è alla base della vita per come la conosciamo. Non diversamente scriveva Ovidio nelle Metamorfosi, con in testa la metempsicosi di Pitagora e la convinzione che in qualche modo la vita continuasse. Il digitale è però ipertrofico. Non ricicla, produce infinitamente. Il rischio è un’ipertrofia della rappresentazione rispetto alla realtà. È forse necessario problematizzare attraverso il linguaggio, che ci definisce. Se la metamorfosi è un topos, un luogo comune, una questione (anche) di retorica artistica, significa che possiamo esserne artefici, cioè agenti. Considerarla non una metafora – che, in un modo o nell’altro, sostituisce, sovrappone, rimuove – ma una metonimia. Cioè una continuità. La metonimia è una tessitura, un modo per pensare consensualmente la realtà e le sue parti. Il digitale come continuum del reale.
Noah Kalina, Everyday, 2006
Crediti
Bibliografia essenziale
I. Caleo, Niente di naturale nei nostri corpi, in Not: https://not.neroeditions.com/niente-naturale-nei-nostri-corpi/
V. Cianci, Upgrade della realtà. Virus e feticci nella circolazione digitale, in Lay0ut Magazine: https://www.layoutmagazine.it/upgrade-realta-virus-feticci-circolazione-digitale/
S. Harney, F. Moten, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, Tamu Edizioni, Napoli, 2021
T. Macrì, Slittamenti della performance, Postmedia Books, Milano, 2020
V. Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte, Nero Editions, Roma, 2020
S. Tongiani, L’orizzonte visuale della metamorfosi, tesi di dottorato all’Università di Genova: https://opac.bncf.firenze.sbn.it/bncf-prod/resource?uri=TD20028533&v=l
Fonti immagini
Immagine 1 crediti: Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622 (Galleria Borghese, Roma) fonte: https://cultura.biografieonline.it/apollo-dafne-bernini/
 Immagine 4 crediti: Ritratto dell’artista e performer francese Orlan, realizzato dal fotografo Fabrice Lévêque nel 1997 fonte: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=36619848 Didascalia: Orlan è una performer artist francese nota per le sue ricerche post-organiche. Artista estrema, ha scelto il proprio corpo come materia da plasmare e modellare alla ricerca dell'ideale di bellezza attraverso interventi di chirurgia plastica (performance a cui ha dato il nome di The Reincarnation of Saint Orlan)
 Immagine 5 Crediti: Mette Ingvartsen, To come, 2005 (performance) fonte: https://www.kaaitheater.be/en/agenda/to-come-extended
 Immagine 6 Crediti: Face morphing tra i presidenti George W. Bush e Barack Obama fonte: https://www.keplero.org/2013/02/morphing-mentale.html
 Immagine 7 Crediti: Cindy Sherman Fonte: https://www.instagram.com/cindysherman/?hl=it Didascalia: Un’artista che riflette sulle forme di autorappresentazione legate al digitale è Cindy Sherman; il suo è un corpo metamorfico, narrato in continuo mutamento. Lavora da sempre con la fotografia, negli ultimi ha iniziato a utilizzare i filtri digitali, e in particolare Instagram.
 Immagine 8 Credits: Noah Kalina, Everyday, 2006 Fonte: http://openfileblog.blogspot.com/2011/05/noah-kalina-everyday.html Didascalia: Le possibilità di autorappresentazione ci permettono anche di documentare la trasformazione reale del sé, come nel caso del famoso video self-portrait Everyday369 di Noah Kalina, timelapse di sei fotogrammi al secondo con i selfie che il protagonista si era scattato ogni giorno nell’arco di sei anni.