Disegno: Carola Provenzano
Il filosofo Leonardo Caffo riflette sul tema della capanna: dal ‘Cabanon’ di Le Corbusier a Unabomber
7 luglio 2020
Uno degli account più seguiti su Instagram si chiama “Cabin Porn”. Come il progetto editoriale a cui si ispira, edito da Penguin, raccoglie le capanne più incredibili del mondo: sui solchi dei monti, in riva ai fiumi, sulle rocce, arrampicate nelle foreste, in bilico sulla lava. Siamo nell’epoca dei grattacieli, certo, eppure sono ormai molti anni che il tema della capanna, che poi è quello della vita semplice, si è imposto come fondamentale nella contemporaneità. È del maggio 2018 una già storica mostra alla Fondazione Prada di Venezia chiamata Machines à penser, curata da Dieter Roelstraete che analizza l’idea che a ogni forma di pensiero e di vita corrisponda una qualche forma di spazio - così alcune vite, in quel caso quelle di Adorno, Wittgenstein e Heidegger, vengono messe in relazione a delle vere e proprie capanne in cui questi filosofi sembrano aver trovato il luogo più adatto per le loro teorie. È un topos comune, ma non troppo esplorato tuttavia e forse mai così attuale come adesso: le storie di un isolamento volontario e non obbligato per imparare davvero a pensare. C’è una sorta di storia matrice, che è quella di Thoreau e della sua capanna che poi è la storia del capolavoro della letteratura americana Walden, c’è la storia di Theodore John Kaczynsk meglio noto come “Unabomber”, professore di matematica a Berkley poi diventato il terrorista più ricercato nella storia degli USA che scrive il suo manifesto La società industriale e il suo futuro proprio dentro la sua capanna a Lincoln nel Montana, e poi storie e capanne diversissime come Le Cabanon di Le Corbusier adagiato a Roquebrune-Cap-Martin, in Francia, costruita nel 1951.
È il mito della capanna che torna, ricorsivamente, e che è soprattutto una via simbolica alla possibilità di un’uscita di emergenza dalla vita di ogni giorno; lo spirito del tempo impone una riflessione piuttosto urgente sui modi di vita alternativi a quello più diffuso perché, se ci fermiamo a osservare, lo scenario che abbiamo davanti non è per nulla rassicurante. L’età media si abbassa di nuovo, lo stress è quasi naturale, le malattie aumentano, i climi si ribellano all’uomo, il mondo trema e suggerisce troppo spesso un abisso. La semplicità, come tecnica di diminuzione del fare, sembra essere una soluzione tutta interna all’oriente tradizionale di cui è poi specchio la passione imitativa, spesso ingenua se non ridicola, dell’occidente contemporaneo. Sono sorti così lo yoga tra un aperitivo e l’altro, la meditazione porta a porta, addirittura le musiche tibetane da ascoltare la mattina prima di andare in azienda. Una sorta di profondità a uso e consumo: neanche la psicanalisi era riuscita in un progetto così piccolo borghese. Questa è la profondità che sprofonda, parafrasando una famosa frase di Leonardo Sciascia (“a furia di voler essere profondi, si sprofonda”). Dove si potrebbe sorridere, tuttavia, si apre uno spazio necessario di riflessione che è anche filosofico nel senso più tecnico che la capanna con tutta la sua potenza racconta: l’esigenza di comprensione di un altro modo di vivere, più semplice e orientato alla cura di sé.
Disegno: Carola Provenzano
Forse, soprattutto “per noi”, è sbagliato guardare a un Oriente, ormai inesistente se non nelle sue sacche più isolate, se è la semplicità che vogliamo comprendere: esistono delle storie occidentali, più inserite all’interno dei nostri parametri vitali e quotidiani, che possono insegnare molto e che meritano una filosofia applicata alla risoluzione di un problema pratico ed enorme: l’uscita dalla prassi. L’intuizione è questa, che nessuna teoria filosofica è tale se non viene testata attraverso una pratica di vita. Una “pratica di vita”, per essere tale, deve essere totalmente avvolgente: non si tratta di fare qualcosa nel “tra” delle cose quanto, piuttosto, di essere quella stessa cosa. Gli ultimi corsi di Michel Foucault al Collège de France sono tutti dedicati all’esplorazione dell’essenza di una vita veramente filosofica: non una vita che fa della filosofia ma una vita che è filosofia. Il paradosso a cui arriva Foucault è che una vita realmente da filosofo sia solo quella del cinico: colui che vive nel presente, nell’immanenza e dunque anche nella violenza, e che tende alla presenza totale di sé. Pur non concordando con Foucault sono certo che questo nuovo e quasi maniacale interesse per le capanne si colloca sul solco di questa eredità: la comprensione di una vita semplice, ritirata senza essere necessariamente isolata, e capace di manifestare preoccupazioni solo legate all’essenza delle cose. Una trasformazione dell’esistenza non può che essere un processo radicale e il confronto tra queste capanne che da Thoreau a Wittgenstein attraversano la storia sono anche il punto più estremo di questa radicalizzazione: delle nuove forme di vite, attraverso dei nuovi spazi per la vita.
Cabanon, Le Corbusier, 1951
Il viaggio nella semplicità che l’idea di capanna rappresenta riguarda, ancora una volta, il valore della ricerca filosofica: non una disciplina di apprendimento di qualcosa, ma una trasformazione delle cose stesse. Le cose non si apprendono, si prendono, e diventano parte di noi e questi tentativi di coniugare pensiero e architettura sono, del resto, tentativi di scollegarsi da una “rete” che oggi appare più presente e reale che mai. Un acronimo diffuso è quello di Iot: Internet of things. Si tratta del modo con cui viene identificata l’estensione di internet al dominio delle cose, degli oggetti quotidiani ma anche dei luoghi fisici: una rete non più soltanto metaforica ma fisica che rende gli oggetti dotati di una intelligenza, più o meno forte, grazie al fatto di poter comunicare dati attraverso se stessi accedendo a informazioni aggregate da parte di altri. Molti di voi staranno leggendo il magazine di Triennale con uno SmartWatch al polso che indica quando è arrivato il momento di fare un po’ di moto per agevolare l’abbassarsi della pressione cardiaca: siete nella rete delle cose. Esiste un fil rouge che collega molte capanne, anche quelle che ho scelto per il ciclo Cabin-Out in Triennale (Thoreau, Unabomber, Le Corbusier, Wittgenstein) a questo stato di cose presente: e se la rete prendesse il sopravvento? La profezia nota come “Singularity” di Stephen Hawking avvicina più del previsto la letteratura fantascientifica di Philip K. Dick alla realtà: potranno un giorno le macchine evolversi fino alla messa in scacco delle nostre volontà? Forse questo scenario, dopo la fragilità così corporea che ci ha imposto il Covid, riguarda invece l’impossibilità di una vita semplice e genuina nel dilagare di una rete che si è trasformata da strumento di consumo a consumo dei suoi stessi strumenti (noi).
Questo scenario, previsto in misura diversa tanto da Thoreau che da Kaczynski, potrebbe portare alla progettazione di spazi volti a “scollegarsi” di cui le capanne, ecco perché oggi ne siamo così attratti, sono gli antenati nobili.