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Triennale Milano
Foto di Delfino Sisto Legnani, DSL Studio

Fiorucci Made Me Hardcore: una rivoluzione guardata a distanza

4 febbraio 2025
L’opera video dell’artista visivo britannico Mark Leckey chiude il percorso espositivo della grande mostra dedicata a Elio Fiorucci come l’epifania di un mondo che forse non esiste più.
Visitando la retrospettiva dedicata a Elio Fiorucci curata da Judith Clark – un tentativo non solo di omaggiarne il genio, ma anche di fare un po’ di ordine negli infiniti sviluppi narrativi sottesi a una figura così complessa – si possono immaginare due possibili versi di lettura.
La più immediata è quella diacronica, che invita il visitatore a conoscere le origini del personaggio grazie all’intelligente allestimento di Fabio Cherstich, il quale, attraverso una stanzina severa da scuola elementare dell’Italia del Nord degli anni Quaranta, con tanto di banco e seggiola da scolaro, ci introduce visivamente al sogno, all’immaginazione, all’esplosione pop. Attraverso il riquadro della finestra di quella stanzetta appare, in lontananza, un’esplosione di fuochi d’artificio di neon che anticipano al visitatore già tutto il senno di poi: Fiorucci, il nome, il brand, una storia che anche chi è meno dentro al mondo della moda e dell’immagine ha da qualche parte conservato subliminalmente nel proprio inconscio.
Installation view di Elio Fiorucci, foto di Delfino Sisto Legnani, DSL Studio
C’è poi un’altra possibilità: quella di invertire la visione, come prendendo questo cannocchiale e guardandoci dentro nel senso inverso, provando a ingannare la freccia del tempo e iniziando da quella che è l’ultima opera in chiusura del percorso. Si tratta del video dell’artista inglese Mark Leckey che, con il suo Fiorucci Made Me Hardcore (1999), ha prodotto uno dei più potenti manifesti visivi della cultura giovanile britannica: un montaggio di sequenze che mescola nostalgia e memoria e che fu accolto fin da subito come una sorta di video-trattato di sociologia. Partire dunque da lì e ripensare tutto ciò che c’è nel mezzo di questo percorso può essere un esercizio interessante per riflettere, da una prospettiva diversa, su ciò che Fiorucci (l’uomo e il brand) ha rappresentato.
Fiorucci Made Me Hardcore si colloca nel cuore di una riflessione più ampia sul valore delle sottoculture, sull’evoluzione della moda e della musica come linguaggi sociali e sull’idea stessa di esperienza collettiva. Rappresenta non solo un omaggio ai decenni passati, ma anche, e soprattutto, un epilogo malinconico di un’epoca in cui le sottoculture si sviluppavano spontaneamente e in opposizione alla cultura dominante, prima che il mercato ne inghiottisse l’autenticità.
Nel lavoro di Leckey, uno degli artisti più significativi della sua generazione (e vincitore del Turner Prize nel 2009), vi sono continue esplorazioni del rapporto tra cultura popolare, tecnologia e identità collettiva. Nato nel 1964, è cresciuto in una Gran Bretagna segnata da Margaret Thatcher e dalle sue riforme neoliberiste; un contesto che ha alimentato l’ascesa di sottoculture giovanili come il punk, il rave, l’acid house e il northern soul.
Mark Leckey, 2024, foto di Alessandro Raimondo
In Fiorucci Made Me Hardcore, che non a caso fu presentato alla fine dello scorso millennio in una collettiva all’ICA di Londra, l’artista sintetizzava trent’anni di evoluzione culturale, dai locali disco degli anni Settanta ai rave hardcore degli anni Novanta, utilizzando filmati d’archivio manipolati attraverso un montaggio sperimentale. Guadagnandosi lo status di cult, l’opera non è solo un documentario della cultura giovanile, ma una meditazione poetica e filosofica sul tempo, sulla memoria e sul significato delle esperienze collettive.
Il suo stile, tra il documentario e il montaggio da video-clip, riuscì nel difficile compito di restituire tutta l'urgenza e il brivido di giovani vite vissute ai margini del mainstream. Una processione di figure danzanti rivela la fauna del club, la tribù dello stile e i rituali della notte. I filmati al rallentatore di giovanissimi intenti in danze culturalmente codificate si alternano ai corpi in divisa della polizia, mentre su di loro, ben visibili, i brand adottati all’epoca da questo popolo notturno: Fiorucci, soprattutto.

Frame di Mark Leckey, Fiorucci Made Me Hardcore, 1999, DVD, 14 minutes 30 seconds, courtesy the artist and Cabinet, London
La questione della velocità e del tempo sembra centrale nella relazione tra pop e arte. Lo storico e biografo dei Sex Pistols, Jon Savage, sottolinea questa distinzione in Speed, la sezione finale di Time Travel, una raccolta di saggi scritti tra il 1977 e il 1996. Savage identifica la velocità come elemento cardine nello sviluppo del pop, sia come iconografia che come esperienza vissuta e musicale – il flusso di energia tra Elvis e Thirty Seconds Over Tokyo dei Pere Ubu. Nell’introduzione a Time Travel, Savage scrive: “La velocità è vitale perché è uno dei pochi ambiti in cui gli adolescenti sono più potenti degli adulti, e il tempo è stato frequentemente utilizzato per esprimere un atteggiamento ribelle. Basta pensare a Sly Stone che sfida il mondo con le liriche di In Time.”
Installation view di Elio Fiorucci, foto di Delfino Sisto Legnani, DSL Studio
Il marchio Fiorucci, evocato nel titolo, diventa il simbolo di un’epoca in cui la moda era un mezzo di espressione creativa e sovversiva. Con il suo stile colorato e pop, aveva catturato l’immaginario di una generazione che voleva distinguersi attraverso abiti capaci di raccontare una storia. Questo legame tra moda e identità è centrale nel lavoro di Leckey. Nel video, la progressione degli stili – dai pantaloni a zampa d’elefante del northern soul agli outfit casual dei clubber anni Novanta – racconta l’evoluzione delle dinamiche sociali e della ricerca di appartenenza. Ogni generazione di giovani ha cercato nella moda non solo un’espressione estetica, ma un linguaggio capace di comunicare affiliazioni tribali e ideali di ribellione.
Leckey si appropria di vari found footage per costruire un’esperienza sensoriale che evoca la memoria collettiva; ma le immagini sono spesso rallentate, distorte o ripetute in loop, creando una sensazione di sospensione temporale che riflette la natura frammentaria del ricordo. Qualcosa che si ripercuote anche nella dimensione sonora dell’opera, composta da frammenti di brani e rumori ambientali che amplificano questa sensazione di ambiguità: tanto chiaramente individuabile sulla timeline quanto così atemporale, invitando lo spettatore a intraprendere un viaggio psichedelico nella storia culturale britannica.
Installation view di Elio Fiorucci, foto di Delfino Sisto Legnani, DSL Studio
Se da un lato la sua tecnica si può serenamente inscrivere nel solco del cut-up letterario inventato dallo scrittore statunitense William S. Burroughs – una frammentazione intenzionale che destabilizza il significato delle immagini e apre nuovi spazi interpretativi – Fiorucci Made Me Hardcore sembra proseguire nel solco di altri film sperimentali altrettanto importanti, come Rock My Religion (1984) dell’artista Dan Graham – le cui opere sono state recentemente esposte in Triennale – evidenziando le affinità tra artisti che hanno utilizzato materiali d’archivio per esplorare il potere della musica e della cultura popolare. Se Graham si concentra sui paralleli tra il fervore religioso e l’energia dei concerti rock, Leckey esplora la danza come mezzo di trascendenza e trasformazione, ma anche come ritratto di una folla di corpi che da lì a breve non sarebbe più stata la stessa.
Leckey non segue una narrazione lineare; al contrario, fluttua tra tempi diversi, mescolando scene di ballo e momenti di interazione sociale. L’elemento unificante è la danza, presentata non solo come attività ludica, ma come un rito collettivo capace di trascendere le barriere sociali e culturali. La danza diventa il simbolo dell’effimero, un atto che esiste solo nel momento presente ma che lascia tracce profonde nella memoria emotiva. Le immagini dei ballerini, colti in stati di estasi e abbandono, evocano una spiritualità laica, un senso di comunità che sembra sfidare le regole del mondo esterno. La nostalgia pervade l’intera opera, ma non si tratta di una nostalgia semplice o rassicurante. Leckey esplora un sentimento complesso, che mescola malinconia e critica sociale. La nostalgia, in questo contesto, non è solo un rimpianto per un passato perduto, ma anche una lente attraverso cui analizzare il presente. È lo stesso sentimento che permea, di fatto, anche l’intera mostra dedicata a Elio Fiorucci, dove quel grande capitolo di stile, arte, moda, cultura pop e imprenditoria italiana sembra sospeso in un tempo che sappiamo esserci stato e aver lasciato il suo segno, ma che difficilmente – chi c’era, ma anche chi non c’era e lo ha vissuto virtualmente – riusciamo a ritrovare nel presente.

Cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo perso nella transizione verso un mondo globalizzato e digitalizzato?
In questo lavoro e in altre opere di Leckey, l’artista sembra chiedersi: cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo perso nella transizione verso un mondo globalizzato e digitalizzato? In un’epoca in cui le sottoculture si formano e si dissolvono con la stessa rapidità di un post sui social media, Fiorucci Made Me Hardcore rappresenta anche un monito, un curioso monumento all’impermanente.
Questa condizione è stata descritta più di un decennio dopo dal critico musicale inglese Simon Reynolds in Retromania: Pop Culture's Addiction to Its Own Past (2011). Il concetto di “retromania” evidenzia l’ossessione contemporanea per il passato, dove i riferimenti non sono più semplicemente citazioni, ma diventano veri e propri pilastri su cui si costruisce il presente. La memoria si fonde con una continua sensazione di déjà vu: di già visto, già ascoltato, già indossato, amplificata dalla presenza pervasiva delle intelligenze artificiali, che esasperano questa temporalità ricorsiva.

Il video è un’opera che cattura non solo la memoria personale dell’artista, ma anche quella collettiva di una generazione.
Leckey abbraccia questa retromania, ma allo stesso tempo la mette in discussione, evidenziando come la nostalgia possa trasformarsi in un rifugio sterile se non accompagnata da una riflessione critica. Il suo video, pur celebrando la cultura giovanile degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, suggerisce che il valore delle sottoculture risiede nella loro capacità di immaginare un futuro diverso, non solo di rimpiangere un passato idealizzato. Le sottoculture rappresentate nel video sono spazi di resistenza all’omologazione, ma Leckey non ignora le contraddizioni intrinseche di questi movimenti. La commercializzazione delle sottoculture, la loro trasformazione in mode mainstream, è un tema implicito nel lavoro, che riflette le tensioni tra autenticità e appropriazione.
Leckey ha descritto Fiorucci Made Me Hardcore come un tentativo di esorcizzare la nostalgia per la propria giovinezza. Infatti, tornato in Inghilterra dopo alcuni anni trascorsi in America, l’artista si trovò a riflettere sulla propria identità culturale e sul significato delle esperienze che avevano segnato la sua crescita. Il video, con la sua estetica frammentata e onirica, è il risultato di questa riflessione: un’opera che cattura non solo la memoria personale dell’artista, ma anche quella collettiva di una generazione.
L’inserimento di Fiorucci Made Me Hardcore come epilogo di una mostra dedicata a Elio Fiorucci aggiunge un ulteriore strato di significato all’opera. La mostra, con la sua celebrazione della moda come arte e linguaggio, trova nel video di Leckey un momento di chiusura simbolica, un invito a riflettere su ciò che resta di quell’epoca di sperimentazione e libertà creativa. La grande tenda multicolore che conclude il percorso espositivo, subito dopo la proiezione del video, diventa un simbolo di transizione, un passaggio dal passato al presente. Le immagini del video, spesso oscurate da effetti visivi e sonori, suggeriscono che il passato non è mai completamente accessibile. Ciò che rimane sono frammenti, impressioni, sensazioni. Questa rappresentazione del passato come qualcosa di incompleto e sfuggente è centrale nell’opera di Leckey e fa parte del suo lessico audiovisivo, di questo e di altri lavori.
Loden, installation view, foto di Delfino Sisto Legnani, DSL Studio
Riguardare l’intero percorso della mostra su Elio Fiorucci con questo approccio permette di decostruire i segni pop, i loghi e di riportarsi al principio di una necessità individuale: quella del bambino creativo che voleva evadere da quel banchetto di scuola, e che crescendo ha capito le necessità collettive delle generazioni più giovani di esprimersi attraverso l’apparente leggerezza dei suoi prodotti. Fiorucci, tuttavia, non si è mai confuso con loro: ha sempre mantenuto uno sguardo a distanza sulle cose, vestendo il borghesissimo loden (reperto-chiave in mostra), perché in fondo quelle scene scomposte dei club inglesi e dello Studio 54 a New York non gli sono mai appartenute quanto le botteghe di Milano e i placidi paesaggi dell’Alto Lario.