Installation view All Those Stuffed Shirts, foto Andrea Rossetti
All Those Stuffed Shirts: le macchine "nubili" raccontate da Anna Franceschini
27 giugno 2023
S’intitola All Those Stuffed Shirts l’installazione di Anna Franceschini (Pavia, 1979) visibile fino al 2 luglio 2023. L’opera è composta da sette macchine per la stiratura automatica chiamate dressmen. Come nei precedenti interventi dell’artista, temi quali l’automazione, la rivisitazione della metafisica e il cinema come puro movimento si esprimono in una ipnotica coreografia di oggetti e gesti.
Le macchine di Franceschini, una volta “hackerate” nella loro meccanica e “rieducate” grazie a un algoritmo, danno vita a una coreografia modulata da respiri che gonfiano e sgonfiano corpi d’aria, seguendo una partitura ideata da Franceschini e composta insieme all’artista Matteo Nasini. Il combinarsi di questi livelli e il circuito che generano avvicinano All Those Stuffed Shirts, più di ogni altra opera precedente di Franceschini, al concetto di “macchina celibe” coniato da Marcel Duchamp. Questa espressione è stata in seguito ripresa dal bibliografo Michel Carrouges che analizzando Il grande vetro (1915-1923) di Duchamp lo estese a un'altra serie di nomi e forme: il meccanismo di condanna ideato da Franz Kafka, attuato tramite una sorta di “tatuaggio”, Nella colonia penale; l'incontenibile automazione di Villiers de l'Isle-Adam in Eva futura; le macchine testuali di Raymond Roussel, in Impressions d'Afrique. L’opera di Duchamp presentava già l'archetipo di tutte queste macchine: il piano per il moto perpetuo che le "litanie" salmodiano come in un circolo vizioso; la complessità delle interconnessioni, la sterilità del ciclo, il suo autoerotismo, il suo narcisismo, l'assoluta chiusura del sistema su se stesso nel quale il desiderio è insieme e allo stesso tempo produttore, consumatore e riproduttore. In altre parole, il meccanismo celibe, la testimonianza oculare.
Anna Franceschini, ritratto, foto Andrea Rossetti
Durante il talk con il curatore Damiano Gullì e la critica d'arte Mariuccia Casadio hai giocosamente ribaltato la prospettiva sessuale attribuendo alla tua installazione la definizione di "macchine nubili". Credo che questa spontanea ironia riveli in realtà tantissimo sull’opera e più in generale sulla tua ricerca.
Di sicuro rivela che a farle è una donna che si riconosce come tale. Mi sembrava giusto risistemare semanticamente la questione. Il linguaggio è molto spesso rivelatore. Nell’uso dei termini si annidano i lapsus più infidi, le coperte corte che ci fanno rivelare, nudi, al mondo. E poi la lingua è davvero la macchina per eccellenza. Nell’opera di Kafka Nella colonia penale che tu citi, un racconto per me fondamentale, la macchina scrive il comando non rispettato sulla schiena del condannato. Lo scrive talmente tante volte nella sua carne da ucciderlo, mentre la scritta diventa sempre più illeggibile.
Durante la presentazione di All Those Stuffed Shirts, mi ha colpito il tuo aver sottolineato come queste macchine siano "stanche". Detto con empatia, come a voler conferire una vera e propria identità a questi oggetti animati e contemporaneamente inanimati, vorresti approfondire questo aspetto?
L’identità, la possibilità di agency dei manufatti è un tema centrale nella mia ricerca. In maniera speculare è un modo per riflettere anche sulle azioni e sulle emozioni degli esseri umani. Detto questo, non credo che le mie macchine abbiano una coscienza vera e propria, ma la rappresentano, la mettono in scena, richiamano attenzione verso una popolazione, quella dei manufatti industriali, piuttosto numerosa (e anche rumorosa!) che ci sta intorno molto dappresso. A ben vedere abbiamo intorno a noi, tutti i giorni, molti più oggetti che non alberi e animali. Qual è la relazione che intessiamo con loro? E loro con noi? Riguardo alla stanchezza, invece, potremmo speculare un po’ di più rispetto alla materia. Esiste una “fatica” meccanica, un labour quantificabile scientificamente. Le macchine in effetti si stancano, si usurano, si rompono, si ammalano. Di fatto sono composte da molecole e atomi quanto noi, e come noi umani, le piante e gli animali, sono piene soprattutto di vuoto, di piccolissime particelle che girano intorno ad altre particelle. Ecco, anche lì, tutto danza, tutto si muove e, forse, dopo un po’ si stanca.
Installation view All Those Stuffed Shirts, foto Andrea Rossetti
A proposito della “stanchezza” del lavoro meccanico in un presente nel quale molti predicano la "piena automazione", il curatore Jeppe Ugelvig nel suo volume Fashion Work 1993-2019. 25 Years of Art in Fashion (Damiani, 2020) descrive il mutamento del lavoro artistico: “Il lavoro postfordista assume la mente e la creatività come suoi principali strumenti di produzione e ha una relazione con il piacere, l'auto-realizzazione e il desiderio di spendere 'la parte migliore della propria energia' per promuovere la propria personale impresa. Più di ogni altro tipo di lavoro, questa modalità assomiglia a quella dell'artista bohémien, che fa del proprio 'lavoro' individuale l'attività centrale della propria vita – suggerendo che in un'età post-fordiana, la differenza tra opera d'arte e altro lavoro diminuisce. Quando anche l'artista raffinato è inteso come imprenditore flessibile – alla costante ricerca di nuove linee di prodotto, nuovi mercati, nuove forme di promozione – l'arte non è più così diversa da altri tipi di lavoro culturale, e questo diventa abbondantemente chiaro nel caso del lavoro ibrido arte/moda». Sei d'accordo con l'analisi di Ugelvig circa il fatto che le modalità espressive di moda, arte e altre forme culturali siano sempre più intercambiabili?
Credo lo siano sempre state. Basti pensare alle avanguardie, a Schiaparelli, al Bauhaus. Insomma niente di nuovo sotto il sole. Anche gli artisti rinascimentali erano imprenditori, in fin dei conti. Oppure l’arte è stata al servizio della religione, del simbolico, ma pur sempre a pagamento. Io credo che l’arte sia anche e forse soprattutto lavoro, in tutta la sua semantica. Il tardo capitalismo ha solo accelerato e amplificato alcune dinamiche soggiacenti alla pratica artistica. Il problema per me non è che l’arte diventi lavoro o che lo sia già, semmai la mia preoccupazione sociale è che il lavoro (artistico e non) sia equamente retribuito.
Anche se hai utilizzato più volte il video e la tua formazione comprende il cinema, la maggior parte delle tue opere trovano forma in sculture cinetiche: un'idea di cinema fatta di azioni reiterate, oppure di fotografie che rimandano a scene di set dove la figura umana è al tempo stesso evocata e assente. Quali elementi del cinema, al di là delle sue forme più consuete, ispirano di più il tuo processo creativo?
Sicuramente il movimento, il fondamento del cinema (da cui il suo nome, peraltro). In realtà, ho fatto molti più film e video che opere cinetiche, mi sa che siamo in un rapporto di 3 a 1 o giù di lì. Ma ho inteso fin da subito i miei film come sculture, ho tentato di animare la materia attraverso il dispositivo cinematografico e altri meccanismi. Mi sembra incredibilmente affascinante poter far muovere le cose, come una maga, come se avessi dei super poteri: “Ah! La Franceschini! Quella che fa muovere le cose!”
Installation view All Those Stuffed Shirts, foto Andrea Rossetti
All Those Stuffed Shirts è esemplare anche della “permeabilità” della tua arte, della sua capacità ad aprirsi a collaborazioni e contaminazioni; me le vuoi ricordare?
In primis la partnership con il gruppo An Icon, gruppo di ricerca diretto da Andrea Pinotti per il progetto ERC Advanced Grant "AN-ICON. An-Iconology: History, Theory, and Practices of Environmental Images", ospitato presso il Dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti” dell’Università degli Studi di Milano. Chiamata a collaborare da Barbara Grespi, docente esperta di archeologia dei media, sono stata Art based researcher fino a maggio di questo anno e la restituzione prevista per la mia borsa di studio è stata proprio la mostra in Triennale. Il gruppo si interessa di teorie e pratiche legate all'immersività e alla traduzione del mio progetto da immagine in movimento intesa in senso classico a installazione tridimensionale, film attraversabile, animazione che non necessita di schermo. Credo sia stata un modo fruttuoso di commentare l'evoluzione delle tecnologie di produzione e fruizione dell'immagine in movimento. Una seconda collaborazione che è stata attivata è quella con l'artista Nasini, diplomato al conservatorio; non è raro che nella sua stessa pratica riprenda questioni legate al suono. Le macchine stiratrici che ho messo in scena sono assimilabili a note musicali.
Installation view All Those Stuffed Shirts, foto Andrea Rossetti
Le abbiamo letteralmente suonate attraverso una tastiera fisica korg a sua volta collegata a una tastiera virtuale. La peculiarità della composizione è che, in questo caso, non si può prescindere dalla fisicità dei "tasti". Come in un'animazione disney, in una silly symphony, l'oggetto in questione, il tasto della tastiera, si anima e reclame agency, diventa un attore o attante della nostra storia. Il suono non solo si fa sentire ma si fa vedere, da oggetto fruibile, diventa soggetto che agisce. Infine, la collaborazione con Nelly Hoffmann, designer e creatrice del brand Lulli 2020. Con Hoffmann abbiamo analizzato le caratteristiche dei tessuti originali utilizzati per la creazione dei manichini finalizzati alla stiratura. Abbiamo deciso di provare un altro tipo di tela per testare la reattività al passaggio dell'aria, soprattutto nel momento di sgonfiamento e abbiamo trovato in un tessuto ripstop dalla grammatura leggera, la perfetta combinazione tra leggerezza, resistenza e espressività del tessuto. Attilio Marinoni, titolare della Sinteco Impianti S.r.l. è uno dei maggiori produttori e distributori di questo tessuto ed è diventato sponsor della mostra, con nostra grande gioia. Rispetto alla confezione dei manichini, non abbiamo deviato con particolare decisione dalla linea tracciata dal design originale della macchina, abbiamo seguito la struttura originale con qualche piccola concessione espressiva sapientemente dosata e realizzata meravigliosamente da Hoffmann. Anche i colori che abbiamo utilizzato seguono la consuetudine industriale. Ma, devo essere sincera, il campionario Sinteco è così bello che mi sento davvero tentata a usarlo per un prossimo lavoro.
Nella storia dell'arte recente, vari autori sono stati sedotti dal cinema al punto da voler realizzare vere e proprie pellicole mainstream, affrontando quindi tutti quei processi economici e distributivi di solito alieni alla pratica artistica. È accaduto con vari protagonisti della Picture Generation come Robert Longo, Cindy Sherman, David Salle e poi con altri autori come Julian Schnabel, Steve McQueen o Sam Taylor-Johnson, che del cinema non hanno fatto solo una parentesi ma una carriera parallela. Al di là di questi esempi, ti è mai passato per la mente di esplorare quel tipo di formato e quindi confrontarti con lo storytelling?
Mi piacerebbe mettere in scena una storia. Ecco, sarebbe bello fare un adattamento per immagini di un romanzo o di un racconto. Non mi interessa essere l’autrice del racconto, ma riuscire a visualizzarlo, a farne delle immagini (o delle sculture cinetiche, o ancora delle sculture cinetiche dentro a delle immagini in movimento) che mi piacciono.
C’è un progetto (o tema) che stai sviluppando al momento e del quale vuoi anticipare qualche elemento?
Il pensiero sulla tecnica è vastissimo, il nostro rapporto con le macchine sempre più pensanti e (forse) desideranti cambia rapidamente e ci sono un sacco di film che non ho ancora visto. Insomma c’è moltissimo lavoro da fare!