Lupo Borgonovo
Traduttore e traditore. Intervista a Lupo Borgonovo
31 maggio 2023
Un dialogo con artigiani senza nome del passato e un esercizio di lettura e scrittura eseguito con le mani, traducendo da una lingua sconosciuta: è così che l’artista milanese descrive la sua pratica e il disegno realizzato per la mostra Text su commissione del curatore Marco Sammicheli.
Lupo Borgonovo, Ō VII, 2023, pennarello su carta, foto Andrea Rossetti
Visto da una certa distanza sembra un tappeto, ma non lo è. Õ VII, l’opera realizzata da Lupo Borgonovo per la mostra Text, è un disegno su carta che riproduce i motivi geometrici e le decorazioni di un particolare tipo di tappeto orientale, il karachop, la cui lunga tradizione si perde nel Caucaso sud-occidentale, tra l’Armenia e la Georgia. Le unità minime che lo formano non sono nodi, ma 40 mila minuscole ellissi tracciate a pennarello. Questo nuovo lavoro fa parte di una serie più ampia esposta di recente in Australia, nella galleria ReadingRoom di Melbourne, e tocca alcuni temi centrali nella ricerca di Borgonovo: la rielaborazione di modelli presi dal quotidiano o dalla storia dell’arte con forme e materiali diversi, lo scarto tra l’originale e la copia, la traduzione vista come tradimento oltre che come tentativo di interpretazione. In occasione dell’inaugurazione della mostra, abbiamo chiesto all’artista milanese classe 1985 di raccontarci come lavora e quali ispirazioni guidano il suo processo creativo.
Text, installation view, 2023, Triennale Milano, foto Gianluca Di Ioia
Partiamo dal titolo della serie a cui appartiene quest’opera, Õ. Che cosa significa?
Come altri miei titoli, anche questo non è descrittivo. La lettera o con la tilde allude all’elemento più piccolo che compone l’opera: un’ellisse che, ripetuta, va a formare delle catene e poi il disegno finale.
Perché hai scelto di riprodurre proprio dei tappeti? Come nasce il tuo interesse per questo oggetto?
Ho sempre avuto una sorta di fascinazione per i tappeti, fin da bambino. Mio padre ha lavorato per un periodo in Medio Oriente e ne ha comprati parecchi, che sono diventati una presenza forte in casa nostra, così pieni di colori e di disegni. È un oggetto che ha una grande potenza, perché è formato da milioni di nodi ed è il frutto del lavoro di diverse persone. Spesso li usavo anche nei miei giochi: per esempio, avevo delle statuine che rappresentavano i Galli e i Romani e mi divertivo a mettere in scena i loro combattimenti usando i motivi dei tappeti come se fossero le strade di una città immaginaria. Ripensandoci oggi, era già una prima forma di tradimento. Quando ho messo a punto questa tecnica e mi sono accorto che i disegni così realizzati somigliavano a dei tessuti il mio pensiero è andato naturalmente ai tappeti.
Lupo Borgonovo, Õ II, 2023, particolare
Come sei arrivato ai karachop?
In una prima fase ho fatto delle ricerche e ho provato a riprodurre una serie di modelli di diverse epoche e latitudini trovati sui libri per affinare la tecnica e capire come gestirla. Poi ho scoperto questa tipologia, che funziona bene perché ha un impianto regolare, tramandato di generazione in generazione, con un ottagono centrale e quattro rettangoli ai lati a regolare la composizione. È stata la mia mano, non la testa, a capirlo per prima. Ho cominciato a studiare i karachop sui siti dei musei – per esempio, il Metropolitan Museum di New York offre immagini ad alta risoluzione e permette di ingrandire molto i motivi – e delle case d’asta. Dopo tutti questi passaggi mi è venuta voglia di vederli dal vivo e ho scoperto che a Milano c’è un centro di ricerca molto importante, la Galleria Moshe Tabibnia, che ha una collezione vastissima di tappeti incredibili e ben conservati. Grazie a loro ho potuto osservare i tappeti in lana da vicino e confrontarli con i miei disegni rendendomi conto di quanto fossero diversi, pur conservando un’aria “di famiglia”. Ho in programma anche un viaggio in Armenia, sulle rive del lago Sevan, per incontrare gli artigiani che ancora oggi producono quel tipo di tappeto.
Lupo Borgonovo, Õ III, 2023, particolare
Avere dei modelli è per te un modo per imbrigliare la creatività, per dare una struttura al tuo lavoro?
Sì, anche se è una griglia basculante e può muoversi a seconda delle necessità. Si tratta anche di un dialogo con delle forme prodotte da qualcuno che non conosco, poiché si tratta di oggetti artigianali non firmati, che avviene a una distanza di migliaia di chilometri e di secoli, o millenni. C’è senz’altro un aspetto testuale: disegnare è per me un modo per leggere e riscrivere, è come se traducessi da una lingua che non conosco, visto che ignoro il significato preciso dei simboli riprodotti sui tappeti. O come se trascorressi molto tempo sulla superficie di qualcosa le cui profondità mi rimangono sconosciute. Semplificando al massimo, possiamo dire che il mio lavoro sta tutto in questo movimento che prende dall’esterno, rielabora e poi riporta fuori.
Ō I, making of
Ō III, making of
Ō III, making of
Ō VII, making of
I tuoi modelli sono generalmente colti, oggetti antichi e opere d’arte del passato, ma ci sono delle eccezioni. Per esempio, hai fatto una serie di disegni ad acquerello con protagonista una coppia di asparagi.
Lavorare sugli asparagi vuol dire anche lavorare sulla tradizione, perché molti artisti del passato hanno dipinto nature morte in generale e quell’ortaggio in particolare (da Édouard Manet con L’Asperge e Une botte d’asperges a Max Ernst, n. d. r.). Anche i tappeti sono molto presenti nella storia dell’arte, pensiamo per esempio a Lorenzo Lotto. In quel lavoro, che si intitola Aplomb ed è stato esposto al Museo del Novecento, ho reinterpretato i modelli del passato in una chiave ironica e paradossale, ritraendo i due asparagi in pose tipicamente umane e perfino erotiche. La ricerca iconografica è molto importante per me, l’opera non è soltanto il disegno finito ma comprende tutta la preparazione: la ricerca di immagini che mi piacciono, il rumore del pennarello sulla carta ruvida, l’attrezzatura…
Ō VII, making of
Di che cosa si tratta?
Devo fasciarmi il braccio destro in due punti, per evitare i problemi ai tendini e i dolori che può provocare l’esecuzione di un gesto ripetitivo per così tante volte di fila. Quando ho cominciato a usare questa tecnica non sapevo a che cosa sarei andato incontro, non pensavo che potesse essere un esercizio così fisico. Tutto questo lavoro del corpo è la parte nascosta dell’immagine, però contribuisce a generarla.
Hai anche una pagina Instagram, The Rider’s Gaze, su cui pubblichi fotografie scattate facendo consegnando pasti a domicilio. Guardandole salta agli occhi un tuo particolare interesse per le trame e i pattern geometrici.
Ho cominciato a fare il rider per necessità, ma l’aspetto che più mi interessa è un altro e ha a che fare con lo sguardo. Questa attività è codificata in un certo modo – il ragazzo con lo zaino grande, le pizze che arrivano sempre un po’ scombinate – però permette anche di vedere delle immagini, fotografare gli interni dei palazzi, bloccare una serie di momenti e di forme. Nel tempo ho raccolto fotografie di atri, scale, piante, porte… e questo lavoro mi ha fornito il materiale per un libro che uscirà tra il 2024 e il 2025.