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Triennale Milano
Ph. Gianluca Di Ioia © Fondation Cartier, Triennale Milano
Ph. Gianluca Di Ioia © Fondation Cartier, Triennale Milano

Il tempo ritrovato: appunti sul cinema di Raymond Depardon 

22 aprile 2022
Nato nel 1942 a Villefranche-sur-Saône, Raymond Depardon è considerato uno dei grandi fotografi viventi. Dall’attività di fotoreporter fino ai progetti maggiormente personali, l’artista ha scattato alcune delle fotografie più importanti degli ultimi cinquant’anni. Opere che in Italia purtroppo non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Almeno fino a La vita moderna, una esaustiva mostra personale – organizzata in Triennale Milano da Fondation Cartier pour l'art contemporain – che racconta la storia fotografica dell’autore, presentando inoltre alcuni suoi scatti inediti. Ma Raymond Depardon è anche un grande regista. I suoi film – dallo stile unico e rigoroso – sono stati presentati nei più rilevanti festival internazionali.
All’interno della mostra in Triennale ne appaiono due: San Clemente (1980) e New York, NY (1986). Film profondamente diversi che rappresentano perfettamente le due anime documentaristiche dell’artista francese. Da un lato l’eredità del cinema diretto, svuotato però del suo carattere più ideologico e urgente; dall’altro la presa di coscienza dell'ambiguità dell’immagine. Quella di Raymond Depardon è una produzione filmica enorme, tra documentario (principalmente) e fiction, che diventa una perpetua erosione della realtà per arrivare all’essenziale.
New York, NY (Raymond Depardon, 1986) © Magnum Photos
Raymond Depardon sa scendere a compromessi con la forma, mantenendo sempre intenso l’ascolto del mondo, che è la tavolozza del film, il suo vero nutrimento; e contemporaneamente ha ben chiaro il potere del medium che sta utilizzando. Il grande cineasta e antropologo francese Jean Rouch disse che Raymond Depardon “vede quello che non conosce”, e mai definizione fu più calzante. Questo non significa non avere una direzione o registrare un’ideale oggettività impossibile. Significa invece una scelta stilistica ben precisa che considera il caso come parte dell’essenza del dispositivo filmico, e che per questo motivo va trattato con rigore. Ciò che Raymond Depardon filma è il reale così com’è, senza alcun tentativo di empatia o di finzionalizzazione, ma infilato a forza nella gabbia audiovisiva dell’inquadratura prescelta. “Le dispositif comme machine à cadrer du réel et le sensible comme tropisme”, scrive il critico Alain Bergala.
Dopo i primi esercizi audiovisivi il primo film per il cinema – 1974, Un partie de campagne – è un’immersione nella campagna elettorale (privata e pubblica) di Valéry Giscard d'Estaing. Il film è fortemente voluto dal futuro presidente, il quale però non sa cosa il linguaggio cinematografico può rivelare senza bisogno di chiedere il permesso… Il film viene sequestrato fino al 2002. Il regista sfrutta le ormai consolidate tecniche del cinema diretto, senza inoltrarsi in riflessioni teoriche che già vedono in quelle tecniche una crescente opacità, ma il gioco funziona. Raymond Depardon affina la freddezza dello sguardo e comprende l’importanza della parola in diretta e del tempo filmico. Il piano sequenza comincia a essere lo stilema par excellence
San Clemente (Raymond Depardon, 1982) © Magnum Photos
San Clemente (Raymond Depardon, 1982) © Magnum Photos
Ma se in 1974, Un partie de campagne è il profilmico – e quindi il ritratto psicologico del protagonista – a essere la guida del film, è con San Clemente (1980) che il potere delle immagini si scatena. Il film è il ritratto di un manicomio veneziano – commissionato da Franco Basaglia alle soglie della rivoluzione della psichiatria. Raymond Depardon entra con la sua minuscola troupe e comincia a filmare – esplorando. Le inquadrature sono lunghe e mobili, inquiete ma sempre sinuose. Come in una specie di flânerie l’immagine si aggira in questa sorta di non luogo dove stazionano i “matti”, senza mai soffermarsi decisamente su un personaggio, ma mostrando la relazione tra i corpi, i movimenti e il luogo. Vediamo gli internati nella loro quotidianità: stare immobili, camminare, girare senza pantaloni, ascoltare ossessivamente una radiolina. Non c’è il tentativo di prendere posizione né di commuoversi. Già in questo film il regista vuole fuggire l'empatia, che distrarrebbe il fruitore dall’approccio antropologico che l’immagine-suono sviluppa. Raymond Depardon disegna una sorta di cartografia di San Clemente, ne esplora le diramazioni per poi tornare in alcuni luoghi topici: il refettorio, il giardino e i molti corridoi, luoghi di transizione che diventano metafora di un’attesa indefinibile. Qui emerge uno dei punti fondamentali della poetica di Raymond Depardon: quando la metafora, l’analogia o altre figure retoriche compaiono è perché scaturiscono naturalmente dal lavoro della camera e del suono. Ovvero: è importante prepararsi al caso affinché poi lavori per noi.
Raymond Depardon, in una masterclass tenuta durante l’omaggio che il Festival dei Popoli del 2012 gli ha dedicato, ha detto: “Amo filmare i tempi morti. Quando faccio qualcosa dove non succede nulla, e il tempo è debole e senza interesse [...]. Poi a un certo momento avviene un piccolo miracolo. Non so cosa. Forse una cosa piccola così, ma che dopo il montaggio dà all’immagine una forza incredibile. [...] Questo è veramente il mistero del cinema”. L’immensa produzione filmica di Raymond Depardon incarna perfettamente queste parole. Non c’è film in cui il piano sequenza non sia lo spartito sul quale la realtà compone i propri ritmi. Ciò che muta, con il passare del tempo, è l’idea della messa in scena.
Délits flagrants (Raymond Depardon, 1994) © Magnum Photos
Ph. Raymond Depardon (1995) © Raymond Depardon, Magnum Photos
Ph. Raymond Depardon (1995) © Raymond Depardon, Magnum Photos
Negli anni il cinema documentario dell’artista francese si addentra sempre più nelle istituzioni (manicomi, tribunali, stazioni di polizia), che diventano teatro dell'incontro tra la quintessenza della società – ossia il “controllo” – e tutto ciò che vive ai bordi e deve essere controllato. Il regista non abbandona il suo rigore morale e cerca uno stile che metta a nudo parole e gesti senza “romanzarli”. La camera a spalla lascia pian piano il posto alla camera fissa. La porzione di reale da decifrare e la distanza a cui tenersi diventano fondamentali. Délits flagrants (1994) è il film che segna il passo. Quattordici detenuti subiscono l’interrogatorio di un sostituto procuratore prima di essere inviati a giudizio. La maggior parte del film si concentra sul dialogo tra il funzionario e – di volta in volta – i singoli detenuti, ovviamente in piano sequenza. L’inquadratura coglie di profilo l’accusato e l’accusatore seduti a un tavolo, il quale diventa il centro dell'immagine: una sorta di muro simbolico che separa due parti della società (probabilmente inconciliabili). L’immagine dedica gli stessi spazi e le stesse proporzioni ai corpi umani in un’essenziale inquadratura totale, fornendo allo spettatore la visione di solo metà persona – il profilo appunto, affossando subito l’illusione prospettica della completezza. Questa messa in scena è esibita ai protagonisti, che spesso fanno riferimento alla camera o alla troupe. Il quadro filmico diventa così il palcoscenico della società sul quale esibire la propria parte. Raymond Depardon ripensa anche il montaggio, estremizzando le sue scelte: ora serve solo a cambiare scena. Ricorre spesso al jump cut, che in questo caso poco ha di godardiano ma è semplicemente la volontà di non scendere a compromessi illusori, non creare una narrazione ulteriore. Il regista filma così un dialogo impossibile tra due mondi che non si intendono, facendo emergere – a tratti – le strutture profonde che dominano l’uomo sociale.
Da qui in poi Raymond Depardon ricorre spesso a questo dispositivo, con variazioni e integrazioni. Nella raccolta di film titolata Paysans – un viaggio nel mondo rurale francese – il suo stile si aprirà anche a un certo umanesimo, in cui lo sguardo immobile ed esibito non è utile solo a rivelare le persone inquadrate come parte di un particolare “palcoscenico sociale”, ma anche a cogliere gli ultimi esponenti di un mondo sommerso destinato a scomparire. Il piano sequenza ora serve a registrare un tempo che si sta esaurendo, in cui l’emozione, finalmente, si può mostrare nelle enormi, ma ferree, linee del formato panoramico.
La vie moderne (Raymond Depardon, 2008) © Magnum Photos
Qui palmarès e filmografia completa dell’autore.