Le piazze [In]visibili
8 luglio 2020
In occasione del lancio internazionale del sito piazzeinvisibili, promosso dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, nell’ambito di Triennale Estate, l’ideatore e curatore del progetto Marco Delogu ha dialogato con tre protagonisti della campagna: Luca Campigotto, Francesco Cataluccio, Francesco Zanot e con il curatore del Museo di Fotografia Contemporanea Matteo Balduzzi.
Le piazze [In]visibili, foto di Gianluca di Ioia
Durante il lungo e difficile periodo del lockdown le piazze d'Italia, svuotate dalla presenza umana, hanno rivelato da un lato la loro bellezza architettonica e ricordato dall’altro, proprio nell’assenza e nella condizione sospesa, la fondamentale importanza del loro ruolo civile e sociale. Nello stato di eccezionalità di questa primavera le piazze italiane sono tornate a essere luoghi immaginari, anziché vissuti, così come erano state ideate dai grandi artisti che le hanno progettate e così come compaiono spesso nella pittura del primo Novecento. Joseph Rykwert ricorda nella postfazione di L'idea di città, libro che ispirò Le città invisibili, il capolavoro di Italo Calvino, come la piazza sia una particolarità italiana, un luogo pieno di significati e di relazioni.
Olivo Barbieri, Piazza dei Martiri, Carpi, 11 maggio 2020
Le Piazze [In]visibili intende riflettere sul ruolo delle piazze, simbolo di una bellezza italiana diffusa, attraverso il lavoro di fotografi e scrittori. Le piazze [In]visibili diventa una mappatura, sia geografica che di autori. Il progetto conferma come la cultura e la bellezza del nostro Paese siano, oltre che nelle monumentali opere artistiche e architettoniche, nella grande diffusione della scrittura, della fotografia e nel suo ampio e promettente ricambio generazionale.
“Il coinvolgimento dei quaranta autori, e il dialogo generato tra loro, sono stati la parte entusiasmante di questo lavoro, che credo fortemente abbia ampi margini di espansione lungo tutta la penisola per raggiungere così l’obiettivo, per nulla irrealistico, di restituire la fotografia di cento piazze.” scrive Marco Delogu.
Stefano Graziani, Piazza Sant’Antonio Nuovo, Trieste, 28 aprile 2020
Jacopo Benassi, Piazza Benedetto Brin, La Spezia
La relazione tra immagine fotografica e testo letterario caratterizza fortemente la storia recente della cultura fotografica italiana e anche questo progetto, pur rispettando l’autonomia dei due linguaggi, lavora sulla sottile frontiera dove gli sconfinamenti sono aperti e rafforzano il rapporto tra visioni diverse. Lo scambio tra testo e immagine è un gioco di specchi, di sguardi reciproci: consente di cercare l’immagine nel testo e viceversa e costruisce un terreno comune di rimandi, autoalimentato attraverso il lavoro degli autori con identità, età e stili diversi.
A conclusione dell'incontro Luca Campigotto ha letto un testo inedito che ha scritto durante il periodo di lockdown, parallelamente alla realizzazione delle immagini per il progetto Le Piazze [In]visibili. Il titolo è Milano e Venezia, lo pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell'autore.
Milano e Venezia
“Mi interessa questa fotografia di Piazza San Marco perché, apparentemente, è la foto più scontata che qui si possa fare. Mi sono posizionato verso il fondo, da dove si vede quasi tutto. Purtroppo, restano fuori dalla vista Palazzo Ducale e le due enormi colonne affacciate sull’acqua del Bacino. Non a caso, due giganti come Canaletto e Bellotto – adorati in cui cerco sempre conferme come il cecchino recita il rosario mentre mira e spara – alternavano i loro capolavori mettendosi talvolta con le spalle al Museo Correr, talvolta alla Torre dell’Orologio.”
Luca Campigotto, Piazza San Marco, Venezia, 14 aprile 2020
“Canaletto ha scelto più volte questa vista frontale. In un celebre quadro del 1723 verticalizza decisamente gli edifici perché l’effetto grandangolare non riduca il peso visivo della basilica e delle Procuratie rimpicciolendoli troppo. Quindici anni dopo, invece, opta per una prospettiva più realistica (merito della camera oscura, penso), oltre che per colori più caldi e contrasti morbidi.
Il segreto vuole che lo sguardo arrivi da una posizione leggermente elevata. Stare un poco più in alto, infatti, permette di ottenere una visione meglio bilanciata dei volumi. Un paio d’anni fa ho avuto il permesso di scattare dal tetto del Correr per un libro che ho pubblicato su Venezia per Hèrmes, e nella fotografia che è uscita la disposizione di ogni struttura risulta molto armonica. Stavolta, però, scatto da terra e devo decentrare molto l’obiettivo per riuscire a includere il Campanile per intero. Non voglio tagliarlo perché quando si è lì e si guarda dal vivo non si ha la sensazione di perderne la parte alta, gli occhi non faticano a contenere tutto. E poi, Canaletto ce lo faceva sempre stare.
Tecnicamente, dunque, la mia immagine orizzontale è frutto dello stitching di due riprese verticali realizzate con un obiettivo normale – non grandangolare – montato su un banco ottico con dorso digitale ad alta risoluzione. Il tutto, naturalmente, su cavalletto.
Mi aiuta un cielo di piombo, che va scurendosi ancor di più verso l’alto e fa in modo che la cuspide verde squilli per contrasto, invece che stemperarsi nell’azzurro di un aprile più prevedibile.
Ma quello che vorrei davvero provare a descrivere resta al di là della fotografia: l’emozione che ho provato a stare da solo per ore in Piazza San Marco – luogo iconico per eccellenza, perennemente sovraffollato e inquinato dal turismo di massa.
Quando ho scattato questa fotografia c’era solo un poliziotto, che mi osservava poco distante con l’aria annoiata. Mentre eseguivo la mia lenta cerimonia di scatto, il silenzio intorno era talmente clamoroso che ci immaginavo sprofondati nell’abisso di un acquario. Non si sentivano neanche i gabbiani in lontananza, neanche un filo di vento. Una cappa faceva tutt’uno col cielo grigio ferro. Sembravamo gli unici testimoni di un evento inaudito. La scena del delitto era San Marco vuota all’ora di pranzo (orario, peraltro, che i manuali di fotografia ammoniscono sia sbagliatissimo).
La bellezza intorno era straziante. Come lo era la luce, dura e implacabile, che simboleggiava appieno la realtà del momento. Il mondo intero doveva essere ormai vuoto, e io mi sentivo come ci si sente all’estremo saluto. C’era da aspettarselo che, alla fine, mi sarei ritrovato da solo a fotografare la Piazza. Io e lei, abbandonati entrambi, come era successo altre volte, ma di notte, tanti anni fa.
E il Campanile che volevo a ogni costo tenere nell’inquadratura era lo stesso spilungone di mattoni che, in una sera lontanissima, accasciato su una sedia del Caffè Quadri, avevo visto sdoppiarsi ripetutamente, mentre ammettevo al me stesso liceale di essere completamente ubriaco.
Durante il lockdown sono tornato spesso in Piazza San Marco. Un giorno mi ci sono fermato sei ore di fila, riprendendo da ogni angolazione possibile il vuoto che si era spalancato tra la Basilica e il Campanile, tra le Colonne del Todaro e Palazzo Ducale, tra il molo e il ponte della Paglia. In sei ore saranno passate sì e no venti persone, per metà soldati e poliziotti. Gli altri che ricordo: un runner rimasto senza forze, una ragazza col cane, una coppia di anziani che si tenevano per mano. L’unico, inaspettato, rumore che giungeva era il tintinnio dei moschettoni sulle grandi aste di bandiera di fronte alla Basilica.
Quanto sole, quanto tepore, quanta meravigliosa primavera in quella solitudine. Fino a sentirmi in colpa per essere così lontano dal dolore degli altri.
D’un tratto, Venezia vuota non mi è apparsa più come un bottino fotografico di cui impossessarmi ma, semplicemente, come l’unica amante possibile. Una femmina indomabile, eternamente giovane e, infine, liberata. Un’entità divina che si autoalimenta della propria bellezza senza bisogno di torme di ammiratori. Qualcosa, come scrive Josif Brodskij, che “sa fare a meno di me”. Splendente e dorata, sopravvissuta a ogni acqua alta. La Riva degli Schiavoni come il ponte di prua di un’isola alla deriva della Storia.
Ogni angolo della città pareva stesse respirando una nuova vita. L’ossigeno si sprecava.”
Luca Campigotto, Piazza del Duomo, Milano, 4 aprile 2020
“Qualche giorno prima, Milano, la mia città adottiva, mi aveva fatto tutt’altra impressione. Attraversandone il centro era immediato coglierne il dolore sordo e tutto lo scoramento. La città era di colpo annichilita, orfana dei suoi abitanti e delle sue automobili. Solo i tram continuavano a girare, inarrestabili, lungo i ghirigori dei binari. Tantissimi tram, tutti completamente vuoti e puntuali. Era commovente vederli passare con il loro arancione ottimista e sferragliante. Acciaccati ma con tutta l’eleganza dell’antico design. 'Milan l’è on gran Milan'.
I tram erano un ago che cercava di ricucire le ferite del corpo urbano. Si infilavano in ogni via come a rassicurare che non tutto era perduto, che c’erano loro a presidiare la lotta. Ma era impossibile consolare Milano. Appena il tram si allontanava, la strada ripiombava nello smarrimento. Questa città, talmente forte da essere talvolta considerata arrogante, era davvero in ginocchio. Piena di tristezza.
Piazza del Duomo, l’altra mia fotografia inclusa in questo progetto, faceva un effetto quasi opposto a Piazza San Marco. Il Duomo è una struttura dominante, gigantesca, che sembra sia nata sul posto. Un’architettura congenita. Le sue mille guglie sono propaggini leggere che fanno pensare alle antenne di un’astronave, ma la sua parte inferiore è rabbiosamente attaccata a terra, appartiene al selciato della piazza. Diversamente da Venezia, qui di pavimento in fotografia ne viene fuori anche troppo.
E se la Basilica di San Marco trasmette subito l’impressione di un’arte quasi delirante nella sua aspirazione alla bellezza senza limiti, l’imponenza del Duomo parla, piuttosto, di spiritualità assoluta.
In queste fotografie le due piazze hanno in comune il cielo, blu spento e scuro. Anche a Milano regna il silenzio. Ma mentre il silenzio di Venezia richiama quella sensazione di distacco che si può provare su una spiaggia deserta e remota, quello di Milano suona contro natura, imposto dall’immobilità e dal lutto.
E ancora, mentre a Venezia percepirò con chiarezza quanto il luogo possa essere serenamente slegato dal destino dei suoi abitanti, la quiete di Milano mi colpisce, all’opposto, perché fatta di attesa e rispetto civile, paura e orgoglio ferito. Il Duomo appare come un’arma di pace schierata a difesa, un cuore possente che accoglie le preoccupazioni di tutti. Per questo, mi prendo adesso la libertà di dirlo anch’io – da veneziano trapiantato, mosso da stima e affetto: non si dà Milano senza i milanesi, è proprio vero.”
Crediti
Citazione abstract: Joseph Rykwert, L'idea di città. Antropologia della forma urbana nel mondo antico, 1981
Le Piazze [In]visibili è un progetto promosso dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ideato e curato da Marco Delogu e realizzato da Punctum press.
L’incontro fa parte del format Fermo Immagine, che riunisce una serie di appuntamenti dedicati all’immagine, coordinati da Lorenza Bravetta e realizzati in collaborazione con il Museo di Fotografia Contemporanea.