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Triennale Milano

Le piazze [In]visibili

8 luglio 2020
In occasione del lancio internazionale del sito piazzeinvisibili, promosso dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, nell’ambito di Triennale Estate, l’ideatore e curatore del progetto Marco Delogu ha dialogato con tre protagonisti della campagna: Luca Campigotto, Francesco Cataluccio, Francesco Zanot e con il curatore del Museo di Fotografia Contemporanea Matteo Balduzzi.
Il segreto vuole che lo sguardo arrivi da una posizione leggermente elevata. Stare un poco più in alto, infatti, permette di ottenere una visione meglio bilanciata dei volumi. Un paio d’anni fa ho avuto il permesso di scattare dal tetto del Correr per un libro che ho pubblicato su Venezia per Hèrmes, e nella fotografia che è uscita la disposizione di ogni struttura risulta molto armonica. Stavolta, però, scatto da terra e devo decentrare molto l’obiettivo per riuscire a includere il Campanile per intero. Non voglio tagliarlo perché quando si è lì e si guarda dal vivo non si ha la sensazione di perderne la parte alta, gli occhi non faticano a contenere tutto. E poi, Canaletto ce lo faceva sempre stare.  Tecnicamente, dunque, la mia immagine orizzontale è frutto dello stitching di due riprese verticali realizzate con un obiettivo normale – non grandangolare – montato su un banco ottico con dorso digitale ad alta risoluzione. Il tutto, naturalmente, su cavalletto. Mi aiuta un cielo di piombo, che va scurendosi ancor di più verso l’alto e fa in modo che la cuspide verde squilli per contrasto, invece che stemperarsi nell’azzurro di un aprile più prevedibile.
Ma quello che vorrei davvero provare a descrivere resta al di là della fotografia: l’emozione che ho provato a stare da solo per ore in Piazza San Marco – luogo iconico per eccellenza, perennemente sovraffollato e inquinato dal turismo di massa.  Quando ho scattato questa fotografia c’era solo un poliziotto, che mi osservava poco distante con l’aria annoiata. Mentre eseguivo la mia lenta cerimonia di scatto, il silenzio intorno era talmente clamoroso che ci immaginavo sprofondati nell’abisso di un acquario. Non si sentivano neanche i gabbiani in lontananza, neanche un filo di vento. Una cappa faceva tutt’uno col cielo grigio ferro. Sembravamo gli unici testimoni di un evento inaudito. La scena del delitto era San Marco vuota all’ora di pranzo (orario, peraltro, che i manuali di fotografia ammoniscono sia sbagliatissimo).  La bellezza intorno era straziante. Come lo era la luce, dura e implacabile, che simboleggiava appieno la realtà del momento. Il mondo intero doveva essere ormai vuoto, e io mi sentivo come ci si sente all’estremo saluto. C’era da aspettarselo che, alla fine, mi sarei ritrovato da solo a fotografare la Piazza. Io e lei, abbandonati entrambi, come era successo altre volte, ma di notte, tanti anni fa. E il Campanile che volevo a ogni costo tenere nell’inquadratura era lo stesso spilungone di mattoni che, in una sera lontanissima, accasciato su una sedia del Caffè Quadri, avevo visto sdoppiarsi ripetutamente, mentre ammettevo al me stesso liceale di essere completamente ubriaco. 
Durante il lockdown sono tornato spesso in Piazza San Marco. Un giorno mi ci sono fermato sei ore di fila, riprendendo da ogni angolazione possibile il vuoto che si era spalancato tra la Basilica e il Campanile, tra le Colonne del Todaro e Palazzo Ducale, tra il molo e il ponte della Paglia. In sei ore saranno passate sì e no venti persone, per metà soldati e poliziotti. Gli altri che ricordo: un runner rimasto senza forze, una ragazza col cane, una coppia di anziani che si tenevano per mano. L’unico, inaspettato, rumore che giungeva era il tintinnio dei moschettoni sulle grandi aste di bandiera di fronte alla Basilica. Quanto sole, quanto tepore, quanta meravigliosa primavera in quella solitudine. Fino a sentirmi in colpa per essere così lontano dal dolore degli altri.  D’un tratto, Venezia vuota non mi è apparsa più come un bottino fotografico di cui impossessarmi ma, semplicemente, come l’unica amante possibile. Una femmina indomabile, eternamente giovane e, infine, liberata. Un’entità divina che si autoalimenta della propria bellezza senza bisogno di torme di ammiratori. Qualcosa, come scrive Josif Brodskij, che “sa fare a meno di me”. Splendente e dorata, sopravvissuta a ogni acqua alta. La Riva degli Schiavoni come il ponte di prua di un’isola alla deriva della Storia. Ogni angolo della città pareva stesse respirando una nuova vita. L’ossigeno si sprecava.”
“Qualche giorno prima, Milano, la mia città adottiva, mi aveva fatto tutt’altra impressione. Attraversandone il centro era immediato coglierne il dolore sordo e tutto lo scoramento. La città era di colpo annichilita, orfana dei suoi abitanti e delle sue automobili. Solo i tram continuavano a girare, inarrestabili, lungo i ghirigori dei binari. Tantissimi tram, tutti completamente vuoti e puntuali. Era commovente vederli passare con il loro arancione ottimista e sferragliante. Acciaccati ma con tutta l’eleganza dell’antico design. 'Milan l’è on gran Milan'.  I tram erano un ago che cercava di ricucire le ferite del corpo urbano. Si infilavano in ogni via come a rassicurare che non tutto era perduto, che c’erano loro a presidiare la lotta. Ma era impossibile consolare Milano. Appena il tram si allontanava, la strada ripiombava nello smarrimento. Questa città, talmente forte da essere talvolta considerata arrogante, era davvero in ginocchio. Piena di tristezza.
Piazza del Duomo, l’altra mia fotografia inclusa in questo progetto, faceva un effetto quasi opposto a Piazza San Marco. Il Duomo è una struttura dominante, gigantesca, che sembra sia nata sul posto. Un’architettura congenita. Le sue mille guglie sono propaggini leggere che fanno pensare alle antenne di un’astronave, ma la sua parte inferiore è rabbiosamente attaccata a terra, appartiene al selciato della piazza. Diversamente da Venezia, qui di pavimento in fotografia ne viene fuori anche troppo.  E se la Basilica di San Marco trasmette subito l’impressione di un’arte quasi delirante nella sua aspirazione alla bellezza senza limiti, l’imponenza del Duomo parla, piuttosto, di spiritualità assoluta.  In queste fotografie le due piazze hanno in comune il cielo, blu spento e scuro. Anche a Milano regna il silenzio. Ma mentre il silenzio di Venezia richiama quella sensazione di distacco che si può provare su una spiaggia deserta e remota, quello di Milano suona contro natura, imposto dall’immobilità e dal lutto. E ancora, mentre a Venezia percepirò con chiarezza quanto il luogo possa essere serenamente slegato dal destino dei suoi abitanti, la quiete di Milano mi colpisce, all’opposto, perché fatta di attesa e rispetto civile, paura e orgoglio ferito. Il Duomo appare come un’arma di pace schierata a difesa, un cuore possente che accoglie le preoccupazioni di tutti. Per questo, mi prendo adesso la libertà di dirlo anch’io – da veneziano trapiantato, mosso da stima e affetto: non si dà Milano senza i milanesi, è proprio vero.”