Cellular Songs, 2018, BAM Harvey Theater, Brooklyn, NY, foto Stephanie Berger
Paesaggio-ritratto di Meredith Monk
10 febbraio 2023
La poliedrica artista statunitense arriva in Triennale, insieme a Katie Geissinger e Allison Sniffin, per presentarci uno dei suoi concerti più rari e intimi. Come anticipazione, vi raccontiamo vita e carriera della pioniera della “tecnica vocale estesa”.
Negli anni Settanta Franco Quadri, critico, curatore e cerimoniere milanese della nuova avanguardia teatrale, lavora a una ricognizione di quelle esperienze performative che a suo parere stavano re-immaginando radicalmente la scena contemporanea, in bilico soprattutto tra Stati Uniti e Europa. “Invenzioni di un teatro diverso”, che dimenticano la tradizione, anche tradita, dei testi e della parola, per esplorare altre possibilità, anche fragili e impermanenti, del linguaggio e dei corpi.
In questo mosaico creativo Quadri posa la figura – unica femminile – di Meredith Monk, che aveva del resto già scoperto e trattato in un testo precedente, dove ripercorreva la produzione dell’artista nordamericana (dal 1969 al 1976) esaminando in particolare i concetti e le “invenzioni” teatrali del tempo e degli ambienti. Due questioni fondamentali, utili a stilizzare un profilo artistico che si andava imponendo come uno dei più imprendibili e eccezionali dell’arte performativa internazionale.
Juice: a theatre cantata in three installments, 1969, Guggenheim Museum, foto V. Sladon
Diplomata al Sarah Lawrence College, Meredith Monk si forma inizialmente in danza e con il metodo di Dalcroze. Trasferitasi a New York nel 1964, si esibisce soprattutto in gallerie e centri di danza, tra cui la Judson Church. Monk ha una passione antica, già familiare, per la musica e il canto, e fin da subito si interessa alle combinazioni tra il movimento e la voce. Un terzo elemento, il teatro, si inserisce come in un triangolo, dirà poi.
Education of the Girlchild, 1973, Venezia, Italia, foto Lorenzo Capellini
Nell’approcciarsi per le prime volte alla scena, il pensiero coreografico la istruisce sull'indagine dello spazio: da subito insofferente al vincolo della scatola nera teatrale, Monk esplora nuovi ambienti e architetture, nuove temporalità, dentro la realtà e verso l’immaginazione. Dopo una prima fase di sperimentazione, nel 1968 Monk fonda il collettivo The House, dedicandosi a un'intensissima attività di produzione performativa, spesso site-specific, fuori dagli spazi rappresentativi classici. Nel 1978, coronando un lungo decennio di sperimentazione sulla voce e sul suono, fonda anche un suo "vocal ensemble": un dispositivo mobile, attraversato da diverse voci e musicisti, che attiva e rigenera in diversi formati uno straordinario repertorio di musica e spettacolo lungo più di sessant’anni. L’ensemble si esibisce in concerto il 18 febbraio 2023 in Triennale in occasione del festival FOG.
Per tornare alla ricognizione di Quadri, non si può non citare la distinzione, suggerita dall’artista stessa, tra i due insiemi coalescenti all’interno della sua pratica che nominano uno i paesaggi e l’altro i ritratti. Nel testo di Robb Baker, tradotto da Quadri con il titolo Cronaca in molti paesaggi (e qualche ritratto) e pubblicato originariamente nel 1976 su “Dancemagazine” si legge: “Meredith Monk ha descritto i suoi spettacoli più lunghi come dei paesaggi e li ha paragonati a uno stile di pittura a superficie piana, senza rilievo; mentre quelli più brevi li ha chiamati ritratti. In realtà quasi tutti i suoi lavori sono un misto di entrambi e contengono sia la dimensione panoramica che quella ritrattistica”. Se l’idea del paesaggio si apparenta, su un piano non solo visivo ma anche sonoro e percettivo, a quello della sinfonia e del poema, quello del ritratto segue invece la sonata e la poesia.
Songs of Ascension, 2008, Walker Arts Center, Minneapolis, MN Meredith Monk, foto Cameron Wittig, courtesy Walker Art Center
I lavori “paesaggistici” di Monk sono il frutto della ricerca svolta soprattutto negli anni settanta e per questo attenzionati da Quadri. Uno dei migliori esempi di questa categoria è Vessel (1971), un’opera che l’autrice chiama epica già dal sottotitolo. Vessel è concepito in due fasi. La prima inizia nel loft di Monk – dove appaiono dal buio pochi personaggi quasi immobili, tra i quali Meredith/Saint Joan che suona un organo –, si muove su un bus (trasportando gli spettatori) e termina al Performing Garage, sede storica del Performance Group di Richard Schechner. La seconda ha luogo all’aperto in un parcheggio, dove esplode una battaglia tra eserciti, rumori e canti, che lascia una Monk/Saint Joan sola intenta al sacrificio. Come le altre opere paesaggistiche e sinfoniche, Vessel si scompone in più avvenimenti e si disloca in diversi luoghi. Il paesaggio fugge dallo spazio fisico del teatro e dal tempo lineare e storico, combina i racconti complessi dell’arazzo e i cenni dello schizzo, ha le folle e l’assolo, la solennità del canto e la vulnerabilità del sussurro, abita dimensioni naturali e fantastiche, scorre con l’evidenza della velocità e i segreti delle pause.
Juice, 1969, Guggenheim Museum, NY, foto V. Sladon
I lavori “ritrattistici”, invece, hanno un formato e un luogo di ricezione più tradizionale, la sperimentazione si muove dalle geografie degli ambienti alle coreografie della voce e del movimento. In Songs of Ascension (2008) – della quale Monk parla nelle conversazioni con Bonnie Marranca – la ricerca viaggia dalla monumentalità degli esterni dentro le atmosfere minime del corpo, dei ritmi cardiaci, dei flussi vascolari, fino alla visione del DNA come una spirale continua, una forma possibile di onda sonora. Il DNA può avere un canto teatrale, i gesti creano musica, i suoni scolpiscono le percezioni: le cantate che sostengono le preghiere ascendono, portano in su, ma c’è una possibilità del canto di non dover crescere e alzarsi e anzi andare giù, anche sotto terra?
In conclusione, l’insieme della ricerca di Monk assottiglia ogni distanza, destituisce le gerarchie di valore che assoggettano le visioni dell’impossibile, dell’intimo, dell’onirico, del fantastico alle presunte leggi maggiori del visibile, della logica, della realtà. Insegue una forma orizzontale di teatralità, in cui i corpi, gli oggetti, i costumi, gli spazi, le luci non servono e “funzionano” a uno scopo, ma collaborano e partecipano alla scena con una presenza anche solo affettiva. E proprio il luogo d’elezione degli affetti, della vita intima e privata, la casa, The House, si moltiplica e diventa anche uno spazio di creazione artistica, pubblica, collettiva. Un laboratorio alchemico popolato da fatti, ricordi, sogni, fantasmi, infanzie collettive, oracoli e futuri prossimi. In fondo, Monk pensa il teatro come una magia.