© Memphis Milano
Memphis, ancora e ancora: intervista a Christoph Radl
9 giugno 2022
Sembra che, quel giorno, nel riprodurre Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again (di Bob Dylan) il giradischi si sia inceppato proprio sulla frase “with the Memphis Blues again”. E così… Memphis fu. Attivo tra il 1981 e il 1987, Memphis è stato un collettivo italiano di design fondato a Milano da Ettore Sottsass. Nonostante i pochi anni di attività, il gruppo rappresenta una delle più importanti e dirompenti esperienze nella storia del design mondiale. In collaborazione con Memphis Milano, Triennale ha presentato nei propri spazi la mostra Memphis Again (18 maggio – 12 giugno 2022), e per l’occasione abbiamo avuto il piacere di intervistare Christoph Radl, direttore e curatore dell’esposizione.
Christoph Radl
© Triennale Milano
Memphis: gli inizi
Sono arrivato a Milano nel 1977 per frequentare una scuola politecnica di design. Avevo programmato di fermarmi per circa un anno e mezzo (successivamente sarei dovuto andare a New York). In realtà, a causa di un’avventura dietro l’altra, sono poi rimasto a Milano, e tutt’ora sono ancora qui. Ho cominciato a lavorare con Sottsass nel 1980. Da giovane grafico tirolese sceso dalle Alpi mi sono ritrovato immerso in uno studio estremamente vivace, pieno di giovani (diventati miei amici), con questo leader carismatico – Sottsass –, che proprio in quel periodo stava progettando la prima mostra di Memphis. Occupandomi principalmente di grafica (e non di design) ho accompagnato lateralmente la nascita di quello che sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno dei primi anni ottanta.
Ph. AT|foto © Triennale Milano
Le ragioni del successo
Penso che la nascita di Memphis sia stata un risultato organico. Tutto è partito dagli anni Cinquanta, quando Sottsass ha iniziato a lavorare per Olivetti, con la sua anima da filosofo, designer e architetto, interrogandosi sulle forme da dare agli oggetti, sul funzionalismo e sull’immagine tecnologia – fino ad allora sempre nera e squadrata. Poi, tra gli anni Sessanta e Settanta, ci sono state le esperienze fiorentine con l’architettura radicale (e non solo). Movimenti sparsi un po’ in tutto il mondo. Un altro elemento molto importante per il successo di Memphis è stata la sua dimensione globale: per la prima volta ci fu un’operazione a cui parteciparono designer americani, giapponesi, austriaci, artisti da tutto il mondo, personaggi di grande rilievo nelle loro rispettive culture. In un’epoca in cui non esisteva internet, queste relazioni erano frutto principalmente di contatti personali. Sottass ad esempio, che era un grande viaggiatore, aveva contatti un po’ dappertutto. Le problematiche che hanno portato alla nascita di Memphis erano percepite ovunque. Il collettivo voleva ampliare gli orizzonti, come contrapposizione a una visione del design che lo relegava alla mera funzione. Il famoso “bel design italiano” si limitava a rivestire la funzione in modo minimalistico, con un gusto equilibrato. È comunque importante sottolineare che Memphis non era anti design, non era un gruppo di ribellione. Si trattava semplicemente di una proposta molto forte per ridefinire la concezione e le necessità degli oggetti, che secondo il gruppo – oltre alla funzione – dovevano avere anche una carica emotiva, sacrale, sciamanica, gioiosa, divertente. E secondo me questa era un’esigenza sentita a livello globale.
Ph. AT|foto © Triennale Milano
Cosa resta dopo quarant’anni?
Io sono di un’altra generazione, e come tutti i boomer penso di avere ancora qualcosa da dire. Scherzi a parte, si possono forse tracciare dei parallelismi interessanti. Quando nacque Memphis l’Italia stava uscendo da lunghi anni bui dominati dal terrorismo e dalla paura. Memphis era in qualche modo anche uno dei simboli di una nuova gioia di vivere, di una libertà ritrovata. Volendo, si potrebbe fare un paragone con oggi: siamo reduci da più di due anni di Covid, tra restrizioni e limitazioni dei contatti sociali. Credo che un goccio di colore, divertimento e ironia faccia sicuramente bene.
Penso che anche oggi i lavori di Memphis possano sicuramente essere di ispirazione per un giovane che si confronta con il design. Perché le nuove generazioni si trovano forse in una situazione ancora più difficile. Anche allora i designer dovevano prendere l’iniziativa per realizzare i propri mobili e oggetti; non c’era industria al mondo che sarebbe stata disposta a produrre cose così folli. Ma oggigiorno un giovane che vuole fare il designer ha davanti a sé una vita da professionista, il che non ha nulla a che vedere con la libertà di espressione artistica. Se vuoi essere un designer più o meno di successo, devi sottostare alle leggi del marketing, essere bravo a interpretare in modo coerente la necessità di dare una forma a un prodotto, con il giusto prezzo, con le giuste modalità di assemblaggio, con il giusto gusto, pensando esclusivamente al gruppo di consumo a cui è destinato. E i bravi designer diventano quelli che interpretano meglio, realizzando prodotti che vendono molto. Le uniche alternative sono forse le poche gallerie di design. Ma in questo caso – al di là delle tirature ridottissime – si tratta quasi più d’arte che di design.
Ph. Delfino Sisto Legnani, Alessandro Saletta – DSL Studio © Triennale Milano
Qualcosa è cambiato
Apprezzo i lavori di molti designer contemporanei, ma non ritrovo un’esperienza paragonabile a Memphis. Credo sia stata l’ultima espressione dell’avanguardia. Memphis si inseriva ancora in un tempo caratterizzato da paletti e sistemi imposti dalla “cultura dominante” (per la quale ad esempio non si poteva nemmeno parlare d’arte decorativa o di decorazione artigianale). Oggi invece tutto è possibile. Anche il figurativo è tornato in maniera importante. Essere avanguardistici è molto più difficile. Miles Davis è diventato uno dei più grandi jazzisti della storia proprio perché è riuscito, pur restando nel jazz, a spingersi oltre i paletti che la musica imponeva. Sapete, ora, una volta che non esistono più regole da infrangere…
Ph. AT|foto © Triennale Milano
Memphis Again: la mostra in Triennale
Quando si è presentata la possibilità di fare questa mostra in Triennale eravamo in parte preoccupati, perché i tempi erano davvero strettissimi. Ma alla fine ci siamo riusciti. Inizialmente l’unica cosa di cui eravamo sicuri era che non volevamo organizzare un’esposizione che storicizzasse Memphis; non doveva essere una mostra didattica. Ci piaceva l’idea di mostrare questi oggetti a un pubblico contemporaneo come se fossero prodotti di oggi.
La mostra gioca su due “metafore” principali. La prima: gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da una clubbing scene molto forte, che favoriva anche diverse espressioni artistiche: un intero ecosistema estetico-comunicativo fondamentale per quegli anni. Abbiamo quindi cercato di ricreare un’atmosfera che in qualche modo evocasse quel mood: dai colori – il blu e il nero – alla colonna sonora del dj Seth Troxler, basata sulla disco music degli anni Ottanta (reinterpretata in chiave contemporanea). La seconda: ho pensato di presentare gli oggetti come in una grande sfilata. Ciò ha a che fare con la contrapposizione tra il funzionalismo e l’emotività introdotta da Memphis. Se osserviamo il mondo della moda, notiamo che sulla passerella non sfilano mai i vestiti che servono a proteggere dalla pioggia, dal freddo o dal caldo. Proprio perché anche il gruppo Memphis si è opposto a una concezione limitativa del funzionalismo, ho voluto adottare questa idea della sfilata, ricreando una passerella di ottanta metri. Inoltre, non era mai successo che si riunissero così tanti oggetti appartenenti agli anni di attività del collettivo. In mostra questi articoli vengono presentati in ordine cronologico, e percorrendo questi ottanta metri si vedono i cambiamenti all’interno di Memphis. All’inizio era tutto un po’ naïf, molto colorato, giocoso. Verso la fine invece è diventato più sofisticato, buio, meno allegro. Esattamente come noi l’abbiamo vissuto.