Alessandro Mendini, foto di Carlo Lavatori, Archivio Alessandro Mendini
La città e la vita: gli interventi urbani di Alessandro Mendini
18 febbraio 2021
“Poeticamente abita l’uomo”, scriveva il filosofo tedesco Martin Heidegger. E, pensando al lavoro di Alessandro Mendini (Milano, 1931-2019), verrebbe da aggiungere, con leggerezza, ironia ed emozione. Mendini ha rovesciato l’idea consolidata di bello e buon design, ha stabilito inediti codici poetici e figurativi. Impegno e sorpresa le sue linee guida. Riassume bene l’approccio mendiniano il designer Andrea Anastasio in un recente ricordo: “Mentre si guardava ad architettura e urbanistica come elementi importanti e fondanti intorno ai quali si mettevano le vite, gli individui, qui (in Mendini nda) il ribaltamento è totale: le vite fanno le città, gli abiti fanno le città, i pensieri, le cose, le attività fanno la città”.
Con Mendini – architetto, designer, artista, intellettuale, dalle straordinarie vivacità e curiosità intellettuali – città e vita sono un tutt’uno. La città è il gran teatro del mondo, gli oggetti sono gli attori antropizzati “di una tragicommedia” sul palcoscenico delle nostre quotidiane domesticità. L’approccio progettuale di Mendini – capace di recuperare la lezione del Radical per diventare Post Radical, di guardare al Movimento Moderno per farsi Postmoderno – ha sempre spaziato dal micro al macro, costantemente animato dalla volontà utopica di disegnare un Mondo. Non a caso, la grande antologica Mondo Mendini, al Groninger Museum del 2019, è stata la sua ultima “opera d’arte totale”, collettore dei suoi lavori e dei lavori, e delle cose, da lui amati. Già, le cose. Di Mendini colpisce, tuttora, la capacità di guardare alle cose – quelle alte e quelle basse, quelle di raffinato e sapiente artigianato, e preziose, così come quelle kitsch, umili o banali, ma dal forte portato emozionale, di storia e memoria – con la stessa metodica attenzione. Quali Cose Siamo, mostra del 2010, curata per Triennale Milano, ha rappresentato a tutti gli effetti la sua dichiarazione di poetica, e la sua idiosincratica lettura del design italiano, e della sua storia. A Triennale Mendini è stato molto legato, basti ricordare l’installazione Architettura sussurrante del 1979 per Lo spazio audiovisivo – Spazio reale-spazio virtuale o la mostra Pulviscoli del 2005, la già citata Quali Cose Siamo, il Teatro dei Burattini – progettato con il fratello Francesco nel 2015 per il Giardino – e la mostra Atelier Mendini. Le architetture del 2018. E di Mendini Triennale conserva in collezione le opere – come l’iconica Poltrona di Proust del 1978, pulviscolare smaterializzazione di una seduta in un dipinto e viceversa, o il Mobile infinito del 1981, esemplare del suo approccio collaborativo al progetto – e i disegni – un corpus straordinario, caratterizzato dal suo tratto inconfondibile che tocca tanto le avanguardie quanto Saul Steinberg.
Alessandro e Francesco Mendini, Metropolitana di Napoli: Stazione Salvator Rosa, 2000-2003, Coordinamento artistico: A.B. Oliva
Proprio i disegni, “embrione del pensiero”, aiutano a meglio individuare tutti i punti cardine di quel “Codice Mendini”, ricondotto alla sua grammatica essenziale da Fulvio Irace: il “design pittorico”, la texture, il make up, la cosmesi universale, il re-design, il decoro quale tema autonomo di progettazione, il bio-grafismo, l’antropologia dell’oggetto, l’“oggetto romanzo”, Proust, l’effetto Gulliver, e così via.
Mendini si è confrontato in numerose occasioni con la dimensione urbana, attraverso interventi quali la proposta di progetto per Piazza Plebiscito a Napoli o gli innumerevoli disegni per ponticelli, lampioni, nicchie, dolmen, tempietti, archi, colonne, portali, spesso rimasti solo su carta, o, invece, concretamente realizzati, quali il Busstop Steintor a Hannover del 1992, sempre firmato con Francesco – con l’obiettivo di creare tramite le pensiline in città “un sistema di punti nodali ad alta intensità emotiva” –, la riqualificazione della Villa Comunale di Napoli, del 1999, le stazioni delle fermate della metropolitana napoletana Salvator Rosa e Materdei (progetti del 1999, ma rispettivamente realizzate nel 2001 e 2003, perfetto esempio di sintesi delle arti, cui hanno collaborato artisti di fama internazionale), il Dinosauro, scultura e fontana in mosaico Bisazza (Dinosaur Museum, Katsuyama, Fukui, Giappone, 2000), la Torre del Filosofo (per la mostra Arti & Architettura, a cura di Germano Celant, in occasione di Genova Capitale della Cultura 2004), l’Hortus Conclusus, chioschetto e palchetto per Mimmo Paladino (in occasione della XXVI edizione del festival Benevento Città Spettacolo, Orto di San Domenico, Benevento, 2005) e il lungomare di Catanzaro Lido del 2013. E il Giardino volante: Pagoda di Pistoia del 2015, segnato da una attitudine, anche ludica, per cui i confini tra parco giochi e arte ambientale si annullano, si fondono e confondono.
Alessandro e Francesco Mendini, Villa Comunale, Napoli 1999 Archivio Alessandro Mendini
A proposito dei progetti su Napoli – “nebulosa di pulsazione continua” in cui auspicava una integrazione tra “città della comunicazione e “città della visione” –, Mendini affermava: “La cosa più importante oggi, nel creare un rapporto fertile fra architettura e arte pubblica è quella di farle parlare assieme, dentro a un unico progetto. Assemblare e non sintetizzare: è la caratteristica dinamica della metropoli odierna, fatta di frammenti”.
Dai giardini barocchi alle fontane di Roma alle piazze medioevali: plurime le fonti di ispirazioni per le “piccole architetture” di Mendini, ibridazioni disciplinari, tra arte, design, architettura, grafica, performance, moda e critica.
“La parola Mendini deriva da ‘ram-mendini’ (anche in inglese ‘to mend’), è il nome di un umile mestiere medievale. Quello di chi aggiusta, ricuce, ottiene il nuovo assemblando parti del vecchio. Tipico l’abito di Arlecchino, una immagine fresca, energetica e nuova ottenuta da stracci tagliati a triangolo. Da qui la mia vocazione al frammento, ai particolari, al patchwork, alla regia. Insomma, la maschera di Arlecchino sembrerebbe il mio manifesto: ironica e tragica”.
Quali Cose Siamo, 2010, Triennale Milano
La piazza – luogo per antonomasia di passaggio, di scambi e relazioni – e il monumento sono centrali in Mendini, si pensi al disegno per un monumento per Piazza Diaz a Milano del 2000, dal titolo L’architetto, evidente autoritratto, o al ribaltamento della prospettiva interno / esterno nella trasformazione dello spazio espositivo della mostra Swatch Emotion al Lingotto di Torino nel 1999 in una piazza, immersiva ed esperienziale, al cui centro troneggia un Monumento allo Swatch.
In generale, per Mendini tutto è, potenzialmente, monumento, attraverso studiati passaggi e cambi di scala e una teatralizzazione dell’oggetto: un sandalo Ferragamo o una bottiglietta Campari si possono ingigantire fino a confrontarsi con la copia 1:1 del David di Michelangelo – ulteriore contribuito alla riflessione sulla riproducibilità dell’opera d’arte, su unicità e serialità –, come avviene in Quali Cose Siamo. Ancora una volta, un interno e un esterno, e il suo contrario. In stretto dialogo con il progettista francese Pierre Charpin, Mendini mette in scena nella sala centrale del Triennale Design Museum una grande vasca gialla, da cui emergono opere eterogenee e differentissime tra loro, da lui selezionate, solleticando lillipuziani punti di vista.
Alessandro Mendini, disegno, 2001, Fondo Alessandro Mendini, Triennale Milano
A due anni dalla scomparsa di Mendini si avverte sempre più fortemente la mancanza della sua lucidità, della sua visione, del suo spirito, del suo acume. Resta l’auspicio, e Triennale con la sua Presidenza si impegnerà fortemente su questo, di vedere a Milano la realizzazione di un suo intervento urbano, seppur postumo, o, perlomeno, la titolazione di una via o di una piazza in suo onore. Un omaggio a un gigante del progetto, consapevolmente arguto nello scherzare sull’etimologia del proprio cognome: “La parola Mendini deriva da ‘ram-mendini’ (anche in inglese ‘to mend’), è il nome di un umile mestiere medievale. Quello di chi aggiusta, ricuce, ottiene il nuovo assemblando parti del vecchio. Tipico l’abito di Arlecchino, una immagine fresca, energetica e nuova ottenuta da stracci tagliati a triangolo. Da qui la mia vocazione al frammento, ai particolari, al patchwork, alla regia. Insomma, la maschera di Arlecchino sembrerebbe il mio manifesto: ironica e tragica”.