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Triennale Milano

Ecfrasi della finestra #3

9 giugno 2020
Roma, giovedì 28 maggio 15:42 > 15:56 I piccoli dei gabbiani sbattono le ali, saltellano. Le fronde degli alberi per un attimo si animano, ondeggiano. Provo per l’ennesima volta a descrivere la realtà racchiusa in questo spazio. Se lancio lo sguardo lontano, vedo tantissimi alberi imponenti: cipressi, pini marittimi, palme, platani. Poi le piante sui terrazzi, le bouganville. Abitano l’aria i gabbiani, le rondini, le cornacchie, i piccioni, i merli, i passeri e, ultimi arrivati, i pappagalli verdi. Sul fiume c’è quasi sempre un airone grigio, ma da qui non lo vedo. In altri momenti dell’anno volano gli storni: disegnano splendide nuvole nere, poi bombardano di escrementi gli esseri umani e le macchine. Quest’anno, a febbraio, prima che iniziasse la quarantena, sul tetto sono arrivati due cardellini. Bellissimi. Sono rimasti qualche giorno, poi sono volati via. Ed è quello che farò io stanotte. Per incontrarti, per unire i nostri sguardi. L’istinto vitale tende naturalmente ad abbattere le distanze. La vita è un processo di avvicinamento e di rimescolamento di tutte le cose. Percepisco che hai la testa piena di immagini. Riesco quasi a vederle: spingono per uscire, per mostrarsi, senza arroganza, con l’entusiasmo e la forza delle bambine. Stanotte ci sarà spazio per loro. E per noi.
Casalpusterlengo, giovedì 28 maggio 15:42 > 16:21 Sono comparsi tanti rettangoli di stoffa colorata ai davanzali, ogni casa espone il suo stemma creato scoperchiando gli altari notturni, rivelando la superficie su cui giacciono i corpi dormienti, su cui s’imprimono le tracce dell’amore o del ciclo dei mesi. Ora ondeggiano alla brezza di questo pomeriggio tiepido ma con troppa luce. Si prepara l’arrivo di una parata immaginaria, di una processione che ci celebrerà e ci nominerà osservatori del tempo, dell’aria, delle nuvole, dei battiti d’ali, delle piume, dell’orlo dei pantaloni, delle antenne di trasmissione, del cuore di tenebra. La città si veste a festa per noi, mi sento importante. Ne ho bisogno. Vorrei che la banda del paese suonasse, se possibile, con il trombettista stonato e un po’ ubriaco che esce dai ranghi; vorrei essere trasportata su una lettiga dorata e sorretta da alti cavalli neri e lucidi che stasera si mimetizzeranno con il buio; vorrei posare la testa su un cuscino di piume soffici, in cui la mia testa sprofondi come immersa nell’acqua fresca. Vorrei che venisse tanta gente.
Roma, venerdì 29 maggio 4:42 > ad libitum  In attesa del crepuscolo che anticipa l’alba, mi affaccio per l’ultima volta a questa finestra. È stato bello essere legati da un rito, sapere che avremmo fatto le stesse cose, alla stessa ora. Oggi la febbre si è alzata, mi sento debole. Il telaio della finestra si stacca dal muro, mi resta in mano, poi mi cade addosso. I vetri vanno in frantumi. I palazzi di fronte cominciano a sgretolarsi, si alza una nuvola bianca di macerie. Chiamo i soccorsi, non rispondono. Afferro il copione e scendo novantanove gradini di pietra che si avvitano a spirale. Sono atteso. Il mio cocchio è un pezzo di tettoia, un rettangolo di lamiera ondulata trainato da quattro ratti norvegesi e una nutria. Mi distendo e mi lascio trascinare. Nel frattempo gli dei dell’Olimpo si sono travestiti da nuvole. Osservo la vita dal basso, annuso l’odore pungente del guano. Prendo confidenza con il mio prossimo stadio evolutivo, quello di cibo per vermi, insetti, piante. E intanto ripasso la parte: Questa è la storia di due stelle che ne formano una, di due particelle che non rispondono alle regole della fisica classica. Poi c’è scritto che tu ti metti a ridere e io perdo la battuta. Qualcuno mi solleva di peso. Vengo preso in consegna da militari con protezioni chimiche batteriologiche. Mi caricano su una lettiga e mi spingono verso il ponte che collega Roma a Casalpusterlengo. Dalla mia parte ci sono calendule, crisantemi, ranuncoli: domina l’arancione. Dalla tua parte trionfa il rosso: petunie, papaveri, garofani. I colori tengono conto del rischio di contagio. Siamo fermi, i militari attendono il via libera. Tutto si svolge come se ci dovesse essere uno scambio di prigionieri. Arriva il segnale, ci muoviamo. E anche il tuo corteo si sposta, accompagnato da una banda musicale che suona La Damoiselle Élue di Debussy. Tu stringi in mano il giglio bianco che ti ho fatto arrivare attraverso il gabbiano e l’uomo sul balcone. In mezzo al ponte, al posto di un confine da attraversare, c’è un cerchio disegnato con della polvere d’oro. Le nostre lettighe si affiancano. Un soldato dice: «Avete cinque minuti, poi dobbiamo portarvi via». Ci lasciano soli. Questo è il momento in cui dovremmo dirci delle cose importanti. Cerco il copione e non lo trovo. C’era scritto tutto: la struttura della storia, le motivazioni dei personaggi, un possibile incipit. Non ricordo nulla. Tu ti sollevi leggermente, ti sfili la colonna vertebrale e la agiti nell’aria come fosse un sonaglio. Riproduce il suono di un gatto che fa le fusa. Vedo le tue labbra muoversi, sento solo un bisbiglio, alcune parole appaiono e scompaiono: teatro, occhi, corpi usati come magneti, crisalidi, morte, tutto continua a vivere. Mi viene da piangere e ridere. Allungo la mia mano verso la tua. Le nostre dita si sfiorano e di colpo tutte le farfalle si alzano in volo. I petali dei fiori cominciano a cadere. Il ponte scompare. Noi ci dissolviamo. Restano le parole. Le parole sono virus che si riproducono in fretta.
Casalpusterlengo, venerdì 29 maggio 4:42 > ad libitum Sono agitata. Mi sembra di dover fare ancora tante cose prima che accada, giro lo sguardo intorno per raccoglierle e annotarle in una lavagna sospesa nell’aria, ma nel momento in cui mi dispongo a farle, le cose scompaiono tutte, lasciando un’apnea che mi affatica e mi agita ancora di più. L’agitazione è sinonimo di indecisione, si esprime in me nel momento in cui c’è una scelta da fare. Restare o tornare; tenere o lasciare; testa o croce, destra o sinistra; prima o dopo. Mi mancherà questo luogo, questo spazio familiare e insignificante che per questi giorni è diventato speciale, è diventato uno spazio che posso raccontare. Uno spazio davanti a una finestra, davanti a una montagna di sabbia, a un cantiere edile, davanti a case, davanzali e comignoli. Davanti ad altre finestre con i loro figuranti che regalavano camei fugaci e inconsapevoli; davanti a una foresta di antenne, davanti a un cielo con le sue nuvole e le scie degli uccelli. Davanti a un altro, tu, che mi aspettava alla stessa ora, attendeva le mie parole e io le sue. Un gioco di previsioni per costruire una narrazione che ci portasse a unirci, in questo mondo chiuso e contagiato, non solo da un virus, ma da tanti altri mali invisibili. Ora ci siamo. È tempo della de-collocazione. Dello scambio, del contatto che è il nostro epilogo. E mi trovo qui a scrivere per l’ultima volta con la malinconia di un addio, scrivo come se stessi parlando a qualcuno di non troppo lontano. Basta sussurrare. Cerco di guardare e sentire tutto più intensamente, strabuzzo gli occhi come un ingranditore, amplifico i sensi perché tutto entri in me, il mio corpo è una camera oscura dove si sviluppano per sempre le immagini del ricordo, i miei fluidi sono gli acidi e i fissatori. Ora la mia mente è un museo dove si espongono tutte queste immagini che abbiamo evocato in questi giorni. È questo che ci prenderanno una volta che saremo morti e non ci saremo più? Ci analizzeranno le immagini, come il siero in un laboratorio? Ecco, sono arrivati. Caricano anche me su una lettiga, che è sicuramente uguale a come la stai descrivendo ed è spinta da persone simili a quelle che stai vedendo tu. Anche il suolo di cui è fatto il ponte che collega qui a lì è lo stesso. A tratti ci fa sobbalzare il corpo, ci sballottola e ci fa tremare da un lato all’altro. La banda del paese è partita con me: sì, è questa la musica che senti e che volevo farti ascoltare. Ci fermiamo. Sono condizionata dal fatto che mi hanno chiesto di parlare. So che sono libera, ma per me, come un’attrice diretta da un regista che non ama l’improvvisazione, queste piccole indicazioni diventano imperativi. So che quello che deve venir detto deve avere un certo peso, come una rivelazione. In più voglio fare bella figura, soprattutto alla fine. Mi sudano le mani, che vergogna, ma non dobbiamo stringercele. Questo non si fa più, neanche nel nostro mondo. So che tu non sai cosa dirmi, e la tensione sale, ma questa certezza rompe la densità dei nostri sguardi che si centrano l’uno nell’altro, pupilla dentro pupilla, e d’un tratto sorridiamo. Perché l’esserci è già tutto. Siamo sempre stati tutto fin dall’inizio.
Fine.

Silvia Costa, foto di Elsa Okazaki
Umberto Sebastiano, illustrazione di Valeria Petrone
Silvia Costa è una regista e performer italiana, artista associata del Triennale Milano Teatro (2017-19). È autrice di un teatro che si nutre di una ricerca profonda sull'immagine, come motore di riflessione e di scuotimento dello spettatore. Di volta in volta autrice, regista, interprete o scenografa, quest'artista proteiforme utilizza senza discriminazioni ogni campo artistico per condurre la propria personale esplorazione del Teatro. Il suo lavoro è stato presentato nei più importanti festival italiani e internazionali.
Umberto Sebastiano si è occupato di cronaca culturale, architettura e design per il quotidiano "L’Unità". Ha collaborato con periodici e riviste come "L’Espresso", "Left", "Doppiozero". In qualità di autore ha lavorato per le più importanti reti televisive nazionali. Ha da poco ultimato la scrittura del suo primo romanzo. I suoi reportage letterari si possono leggere sul "Primo Amore".