FOG A TEATRO FINO AL 7 MAGGIO
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Triennale Milano

Ecfrasi della finestra #1

8 giugno 2020
Roma, sabato 23 maggio, ore 5:42 > 6:04 Con la stessa ottusa determinazione di un moto perpetuo, la Terra gira, la notte si spegne e la luce invade il mondo. Tutto è sempre cominciato, tutto comincerà, sempre. Con o senza di noi. Mi affaccio alla finestra, a questo rettangolo di tegole e azzurro. I gabbiani stridono mentre tracciano linee, tagliano la tela del cielo.  Un colombo gira su se stesso, fa una danza di corteggiamento, si gonfia, allarga la coda, saltella, si avvicina a una femmina che vola via. Lui si tuffa e la insegue. Il sole si fa precedere da un chiarore color albicocca. Trafigge la guglia di una chiesa e infine appare, accecante. E tutto per un attimo si acquieta, i gabbiani smettono di strepitare, nel cielo restano le rondini. Tutto è immobile, tranne le ali. E gli esseri umani sono dissolti.
Casalpusterlengo, sabato 23 maggio, ore 5:42 > 6:25 Ho atteso. Notte in cui anche venti minuti fanno due ore, quattro o cinque giramenti di testa sul cuscino e un mezzo sogno. Respiro finalmente. È già troppo caldo qui. So che qualcuno è seduto, come me ora, a una finestra e guarda fuori, ascolta. Un grosso corvo nero è appena entrato nel mio campo visivo, si libra agile nella densa foresta di antenne che spiccano dai tetti delle case. Ogni antenna viene da una specie diversa. Ci sono quelle a poche braccia, e quelle in cui dal corpo centrale se ne aprono innumerevoli. Ci sono quelle unidirezionali, con le braccia dirette in un unico verso, e quelle che chiamerei spiraliformi, con le braccia che ruotano tutt’intorno. Anche le braccia hanno diverse caratteristiche: ce ne sono di lineari, di complesse, di frastagliate, cioè con molte piccole creste che si aprono alla base o per tutta la lunghezza; ci sono quelle scure, più anziane, e quelle brillanti, le giovani, dico io. Gli uccelli prediligono quelle semplici. Ci si posano, in molti ci fanno una sosta. Da lì osservano anche loro. Sento uno sbattere di ali molto vicino, risuona come una serie di piccoli schiaffi di cui avrei bisogno ora per uscire completamente dal sonno. La luce aumenta velocemente. Un cielo senza contrasto, un cielo piatto senza troppe promesse per il giorno che inizia. Anche gli uccelli, come le persone, seguono percorsi, traiettorie del cielo che li conducono alle loro mete quotidiane. Sono strade invisibili, ma se ora prendessi un foglio trasparente e disegnassi ogni passaggio che vedo nell’aria, forse traccerei una piccola città aerea, fatta di strade che si incrociano, in discesa e in salita, snodi stradali, angoli e svolte. Il suono degli uccelli, canto delicato e melodico, sta pian piano sfumando e gli si va sostituendo quello delle auto, di alcune voci. Ora c’è anche un corpo. Un uomo, il primo di oggi, è uscito in uno dei terrazzi qui di fronte. Ha una t-shirt blu. Lavora piegato verso il pavimento. Sposta oggetti, da qui non capisco cosa siano. Si è aperto una seggiola, l’ha messa contro il muro. Ci si è seduto. Guarda davanti a lui. 
Roma, sabato 23 maggio, ore 18:42 > 19:54 Un signore anziano abbevera le piante. Tiene in mano un tubo flessibile giallo che si annoda come un serpente. Ha il cranio lucido e un taglio di capelli che sembra la tonsura di un frate. Indossa una canottiera grigia, smunta. Sulla terrazza accanto alcuni ragazzi bevono qualcosa, scherzano, ridono. Sopra di loro una nuvoletta ha la forma di una spirale che si avvita in basso. I palazzi sono avvolti da una luce morbida. Il sole colpisce la Torah scolpita sulla facciata della sinagoga, il libro sacro risponde sprigionando i suoi raggi di pietra. I platani del lungotevere sono verdissimi e carichi di foglie. In fondo a via Catalana due bambine giocano a rincorrersi. Indossano la mascherina bianca di cotone, quella che si può lavare. Una signora anziana è seduta sul bordo di una grossa fioriera. Un bambino piccolo, vestito con una tutina rossa, cammina barcollando sotto gli occhi del padre. Qualche metro più in là c’è un ulivo piantato in ricordo di un altro bambino, ucciso esattamente in quel punto, nel 1982, da una bomba a mano lanciata da un terrorista. Un carabiniere esce dalla garitta che si trova all’angolo della scuola ebraica, si soffia il naso e butta il fazzoletto nel cestino. Qualcuno si saluta da una terrazza all’altra. Alzo lo sguardo. In lontananza scorgo la bandiera gialla e rossa del Campidoglio, faccio una torsione e intravedo il tricolore del Quirinale. Un altro drappo, un lenzuolo bianco, penzola da una finestra socchiusa: la prendo come una dichiarazione di resa. Sento il pigolio dei piccoli gabbiani, è un lamento acuto e stridulo: hanno fame. Cerco di riprodurre quel suono, poi ci rinuncio. Arriva la madre, o il padre, non riesco a capirlo. I piccoli aumentano il volume del lamento, avvicinano il loro becco a quello dell’adulto. Il gabbiano sta per rigurgitare, l’ho vista decine di volte quella scena. Apre il becco e da quella cavità sboccia un fiore di piume scure. Sono le ali di un piccione morto, ma sembrano la corolla di un fiore bellissimo. E mentre mi aspetto che il gabbiano condivida il pasto, lui mi guarda, se lo ricaccia in gola e chiude il becco. E allora, non so perché, mi ricordo dell’uomo che all’alba sedeva sul balcone di fronte alla tua finestra e inizio a pensare che sarebbe bello se ci fosse un passaggio, un corridoio, fra il gabbiano e quell’uomo. E comincio a scriverti una lettera. Alla vecchia maniera, con carta e penna. Il gabbiano si avvicina, l’afferra con il becco e la trasforma in un giglio bianco. Poi quel fiore, dopo qualche istante, spunta dal petto di quello sconosciuto che hai notato nel palazzo di fronte. Gli perfora il petto, lo lacera, e lascia l’uomo sgomento, ma in vita. E penso che se fosse possibile, se funzionasse così, le cose e gli esseri viventi sarebbero più interessanti. Poi abbasso lo sguardo.
Casalpusterlengo, sabato 23 maggio, ore 18:42 > 18:57 Un salto, che è il movimento a cui ritorno più spesso in questo periodo. In questo caso, un salto nel tempo.  Mi ritrovo seduta qui di nuovo. Non voglio considerare la giornata, che di nuovo mi pare sia stata poco piena, troppo corta. Vorrei tornasse l’uomo di stamattina, ma non c’è più, si è dissolto. Forse lo aspetto un po’, come ho fatto all’alba, ma non credo che tornerà, le tapparelle di casa sono chiuse fino in fondo, la saracinesca della sua giornata è già stata abbassata. Ben prima della nostra. Cosa ha fatto tutto il giorno? Cosa fanno le persone? È una domanda a cui torno spesso. È una curiosità umana, che ha a che fare con il metodo, la pratica, l’esercizio quotidiano della vita. Si è alzato il vento, e mi piace questo fresco sulla fascia del volto, che mi raffredda la fronte decisamente calda, come spesso mi accade quando dormo poco. Ma anche gli alberi che sporgono dal vecchio tetto grigio, che ho di fronte, ne godono, li vedo ondeggiare, compiere la loro danza sinuosa, sempre a ritmo con i soffi, non sbagliano un passo, loro. Ma ecco che quando sto per chiudere arriva la scena che aspettavo. Sento il pianto di un bambino, ma non quei pianti energici di richiesta, un pianto stanco, come se lo dovesse fare. Alzo lo sguardo e una madre con una maglia rosso vivo, lo sta tenendo davanti a lei, lo mostra a una donna sporta dal terrazzo opposto, si salutano. Boati invisibili si alzano da ogni dove, il vento soffia più forte: ho assistito all’esposizione di un piccolo dio, divinità del tramonto con cui cala il sole e si vela un altro giorno. 
Roma, domenica 24 maggio, ore 7:42 > 8:12 Il sole è una macchia sbiadita, serve solo a rendere più scure e dense le nuvole che lo nascondono. Mi piacciono le nuvole. Ho passato quindici anni a guardarle da questa finestra. Strati di zucchero filato, cotone idrofilo. Le rondini si sono impossessate del cielo. Ci sono solo loro. Mi sfiorano, garriscono. Sopra la mia finestra c’è un nido. Sento il mio cuore battere. Provo a lanciare lo sguardo più lontano, verso i colli, inutilmente. Qualcuno ha detto che se si vuole conoscere le cose lontane, non si deve andare lontano, ma spingersi in profondità, dentro se stessi. Il carabiniere chiuso nella garitta sta leggendo qualcosa. Di solito ha in mano un tablet, guarda le serie televisive. È l’unica figura umana, per il resto ci sono mattoni, tegole e pietre depositate nei secoli. Tutto è immobile, come la scenografia di un teatro abbandonato. E poi ci sono io, spettatore di uno spettacolo che è sempre sul punto di cominciare. E poi ci sei tu. E sappiamo che non esiste uno sguardo neutro, passivo: il nostro sguardo trasforma il mondo. E mi rendo conto che quello che stiamo facendo è un esperimento scientifico. I fisici lo chiamerebbero entanglement. Una volta stabilito l’intreccio fra due particelle, la distanza diventa una variabile irrilevante: ciò che fa vibrare una, si riverbera nell’altra. E mentre ci penso, mi scivolano accanto due piccole piume bianche. 
Casalpusterlengo, domenica 24 maggio, ore 7:42 > 8:24 Le tapparelle della casa dell’uomo sono già alte stamattina, come anche il sole, che fa risaltare i diversi toni di giallo delle case. Si sono accordati in una tavolozza di sfumature degradanti di luce. C’è meno vita nel cielo stamattina. Gli uccelli hanno forse già finito di svolgere le loro mansioni, e si sono rintanati nei loro nidi che si nascondono sempre, ma c’è più vita appena sotto. In pochi minuti sono spettatrice di una coreografia di ingressi e uscite, da finestre, tetti e terrazzi. Inizia così. Un gatto bianco e nero cammina da destra a sinistra sul bordo del tetto grigio. Si prende il suo tempo, con eleganza, e lo dà all’ingresso in scena, sul terrazzo di sinistra, di una donna. Sbatte due volte un telo che posa sulla ringhiera del terrazzo ed esce dal campo visivo rientrando in casa; lascia lo spazio e l’attenzione simultanea a due uomini, uno ancora più a sinistra, l’altro semplicemente a un livello più basso dello sguardo. La traiettoria del primo è: passo in avanti e poi quattro laterali sulla sua sinistra; a ogni passo una tenda a soffietto verde sbiadito gli cala davanti e lo nasconde. L’altro resta di spalle tutto il tempo, con il suo gilet rosso bordò che lo isola come busto. Poi si volta. Si appoggia al muro giallo, e insieme all’altro uomo chiudono la scena, rientrando nelle loro rispettive case. Tutto torna di nuovo calmo. C’è una sfumatura più chiara in questa porzione di cielo che osservo, è sempre lì. Come dipinta. Sento una sirena e subito il mio pensiero va all’emergenza in cui siamo vissuti fino a ieri. Ma penso anche a quel fenomeno fisico che mi spiegarono a scuola, l’effetto Doppler: lo visualizzo con quei cerchi concentrici bianchi e neri, che mettono sempre a lato della spiegazione, per far capire il movimento delle onde sonore. I cerchi si avvicinano all’osservatore e fanno percepire meno distanza, un po’ come fanno queste parole che scriviamo, l’uno immaginando l’altro. La distanza che ci separa è relativa. Il suono mi sfiora e mi abbandona. Una piccola piuma bianca, sospesa nell’aria, si posa leggera sulla tastiera del mio computer, mi ferma la mano, mi dice “basta per ora”. 
Roma, domenica 24 maggio, ore 20:42 > 21:22 Odio questa città che sopravvive a tutto, che non si fa scalfire da niente. Che mi ha spalancato gli occhi per ficcarci dentro a forza la sua bellezza. Odio questo teatrino fasullo. Odio la dolce vita, la bella vita. Odio la casa di Mara Venier. Odio l’altare della patria. Mi affaccio alla finestra controvoglia, recalcitrante, come le frecce affrescate dal Mantegna nella chiesa degli Eremitani a Padova. Prego che una rondine sbagli traiettoria e mi colpisca al volto. Guardo in basso, verso la piazza, e vedo un gruppo di turisti. Indossano tutti la mascherina. Sono i primi da quando c’è stato il lockdown. La guida si fa riconoscere perché sventola una bandiera italiana. Il tramonto ha lasciato un alone violaceo in una piccola porzione di cielo. Proprio in quel punto un aereo di linea fa una virata. Rivolgo lo sguardo all’interno, cerco di raggiungerti. Anche se non siamo gli ultimi sopravvissuti della razza umana. Non siamo le uniche particelle dell’universo. Non siamo speciali. Non siamo piume bianche che si spostano nel tempo e nello spazio.
Casalpusterlengo, domenica 24 maggio, ore 20:42 > 21:09 É apparso il rosa, il viola, l’arancio. Un po’ di calore. C’è un suono continuo e fastidioso in sottofondo, di qualcuno che non vedo e che sta finendo qualche lavoro di pulizia della domenica. Immagino sia una di quelle lance che spruzzano acqua ad alta pressione. La forza di un solo elemento che si concentra in un punto. Questo suono è in contrasto con il cielo con il quale mi vorrei avvolgere ora, come una coperta. Sento un certo strano freddo, come una febbre di una stanchezza senza ragione. La senti anche tu questa divisione da dove ti trovi? Una divisione che separa i sensi dalle percezioni. Mi chiedo se quello che penso a distanza non abbia la forza di una materializzazione di oggetti e situazioni in un altrove. Mi chiedo se basta un pensiero per accarezzare una persona lontana, o per farle sapere che la si sta pensando. C’era un tempo in cui pensavo fortemente una cosa, e accadeva. Mi faceva paura e mi inebriava allo stesso tempo. Lo chiamavo destino, ma credo fosse solo un’attenzione a quello che succedeva intorno, la capacità di osservare i fenomeni, come facciamo ora, e di interpretarli. E così quello che era caso, diventava destino. Diventava magico. Come un coniglio che esce dal cappello di un prestigiatore o come due piume bianche che si moltiplicano a latitudini diverse. Era un caso o un destino? Il rosa sta vincendo su tutto. Un trionfo femminile sul giorno che cade. 

Silvia Costa, foto di Elsa Okazaki
Umberto Sebastiano, illustrazione di Valeria Petrone
Silvia Costa è una regista e performer italiana, artista associata del Triennale Milano Teatro (2017-19). È autrice di un teatro che si nutre di una ricerca profonda sull'immagine, come motore di riflessione e di scuotimento dello spettatore. Di volta in volta autrice, regista, interprete o scenografa, quest'artista proteiforme utilizza senza discriminazioni ogni campo artistico per condurre la propria personale esplorazione del Teatro. Il suo lavoro è stato presentato nei più importanti festival italiani e internazionali.
Umberto Sebastiano si è occupato di cronaca culturale, architettura e design per il quotidiano "L’Unità". Ha collaborato con periodici e riviste come "L’Espresso", "Left", "Doppiozero". In qualità di autore ha lavorato per le più importanti reti televisive nazionali. Ha da poco ultimato la scrittura del suo primo romanzo. I suoi reportage letterari si possono leggere sul "Primo Amore".