The Dig, 2019
Le fotografie che hanno vinto il Premio Luigi Ghirri 2022
3 marzo 2023
Dalla fotografia come medium per documentare la Storia a mezzo per costruire interpretazioni di archeologie possibili, forse fantastiche ma comunque capaci di innescare riflessioni sul concetto di realtà. Le opere di Giulia Parlato in mostra fino al 26 marzo 2023 mettono alla prova la nostra fragile percezione davanti all’immagine.
Nel febbraio 1927 Aby Warburg intraprese quel progetto che non vide mai una conclusione e che ancora oggi rappresenta il suo lascito più famoso: il Bilderatlas Mnemosyne. L’atlante d’immagini che lo studioso concepì nel corso di due anni e mezzo nasceva come uno strumento del tutto peculiare per illustrare la sintesi delle proprie ricerche attorno ai temi iconografici e iconologici condotti lungo un’intera vita.
© Gianluca Di Ioia
Il Bilderatlas, ispirato alla divinità della memoria, consisteva in una serie in divenire di pannelli di legno, ricoperti di tela di juta nera, sui quali Warburg appuntava gruppi di immagini, attingendo da ciò che al tempo si iniziava a configurare come la massa iconografica generata dalla riproduzione tecnica: fotografie, certamente, alcune scattate da Warburg stesso e che costituirono per molto tempo l’archivio personale dello storico dell’arte, ma anche, e soprattutto, riproduzioni a buon mercato e altri reperti visivi come cartoline, immagini pubblicitarie, ritagli di giornali, fino a quel momento non ammissibili scientificamente nel repertorio dello studioso. Eppure, tale approccio sul come avvicinare le forme prodotte nella storia dell’arte e delle cose, procedendo per intuizioni più che con strumenti storiografici, permise di guardare con occhi nuovi la Storia, ovvero a ciò che il tempo lascia tramite un processo di analogie od omologie tematiche o formali.
© Gianluca Di Ioia
Oggi, senza saperlo, milioni di user utilizzano – con risultati impari – l’esercizio del Bilderatlas attraverso la collezione di un’infinita serie d’immagini postate sui vari social network e sui principali collettori di fonti visive, partecipando quotidianamente a quell’inquinamento dell’iconosfera che caratterizza il nostro ambiente digitale.
È possibile provare a rintracciare, al di sotto di tale ammasso di stimoli retinici, un certo valore proprio, intrinseco, del medium fotografico in questo contesto? Il lavoro di artiste come Giulia Parlato sembra proprio raccogliere tale sfida lavorando con estrema attenzione sui principi della fotografia e sul suo valore documentale. Nella mostra Diachronicles, curata da Ilaria Campioli e Daniele De Luigi, l’artista mostra la serie completa di lavori che le hanno valso il Premio Luigi Ghirri nel 2022. Nelle grandi fotografie in bianco e nero, allestite negli spazi di Triennale, emerge l’analisi di reperti e semplici frammenti ai quali attribuiamo istintivamente una certa importanza anche quando, apparentemente, poco o nulla ci viene mostrato, eppure quei residui affiorano come lettere di un alfabeto perduto utili a decifrare un messaggio sepolto nel tempo.
© Gianluca Di Ioia
Il progetto, ispirato da una visita di Parlato proprio al Warburg Institute di Londra, evidenzia il modo in cui gli oggetti e le loro immagini, nel corso della Storia, siano sottoposti a molteplici letture ed errori di interpretazioni, manifestando la frustrante condizione dello studioso che non potrà mai conoscere fino in fondo quel brano di passato che vorrebbe ricostruire.
Le grandi immagini che costituiscono la serie Diachronicles descrivono spazi di assenza: vetrine museali svuotate, casse di legno e altri strumenti abbandonati nei pressi di siti archeologici non meglio precisati. L’osservatore lecitamente è portato a domandarsi a quali imprese, a quali raccolte museali gli scatti alludano, riconoscendo in essi una certa familiarità; nello scorcio di un diorama zoologico, simile a molti dei quali si incontrano nelle collezioni scientifiche in tutto il mondo, permane comunque il dubbio di trovarsi di fronte a una mera simulazione, a un set realizzato appositamente per custodire il museo del nostro immaginario.
Box, 2019
Parlato, con la macchina fotografica, lavora come un’investigatrice sulla scena del delitto, trattando quei reperti fotografici come delle evidences; termine che, se nel linguaggio anglosassone descrive la “prova” in senso anche giuridico, conserva nell’etimologia la proprietà di “rendere evidente”, di “evidenziare” ciò che merita di essere notato.
L’artista, nei 37 scatti di vario formato e nel video the Discovery (realizzato in collaborazione con il regista Claudio Giordano) guida l’osservatore in un’affascinante archeologia del possibile, dove la scena reale si mostra nei veri reperti che, a loro volta, si manifestano come props all’interno di un articolato progetto di staging. Lungi dal voler depistare il visitatore, Parlato vuole renderlo partecipe di quanto ciascuna immagine, anche quelle che si presentano come sfacciatamente “reali” siano sempre il frutto di una scelta, di un punto di vista e, in fondo, di un processo di editing.
Grandi autori contemporanei, come ad esempio l’artista canadese Jeff Wall, hanno anticipato tali tematiche costruendo dettagliatissime narrazioni, così come fotografi del reale quali Ziyah Gafic con i suoi reportage o acuti osservatori come Joan Fontcuberta hanno messo in questione la verità della fotografia.
© Gianluca Di Ioia
Proprio il fotografo e teorico spagnolo Fontcuberta ebbe a notare: “In un certo senso, un artista non è molto diverso da un insegnante, perché con i suoi scatti, un fotografo cerca di trasmettere una conoscenza del mondo e, con lo spirito di un insegnante, si adopera per far capire al pubblico le sue immagini. Sono dimensioni simili che trattano materie diverse. Per quanto mi riguarda, l'obiettivo che mi sono posto con il mio progetto come artista, è insegnare al pubblico o comunque indurlo a reagire in modo critico alla verità proposta da una fotografia. Per questo motivo, probabilmente, il mio lavoro non ha solo una dimensione pedagogica, ma anche una valenza di profilassi, nel senso che vuole liberarsi dal peso della falsificazione, della manipolazione, della narrazione fittizia che in una certa misura grava sulle immagini fotografiche.”
Ladder, 2020
Diachronicles di Parlato muove da simili considerazioni sul ruolo e la responsabilità del fotografo, affrontando la Storia attraverso una prospettiva dinamica ed evolutiva, diacronica, appunto. Una Storia che chiede continuamente di essere scandagliata nelle sue falsificazioni, rimozioni e oggetti che al di fuori della loro simulazione fotografica sono per sempre smarriti.