Fedeltà al tradimento. L’architettura figurativa di Carlo Aymonino
3 luglio 2020
Lo storico e critico di architettura Manuel Orazi ricostruisce un ritratto di Carlo Aymonino (18 luglio 1926 – 4 luglio 2010) in occasione del decennale della morte dell'architetto: dai primi anni di lavoro a Roma, fino alla fase finale della sua vita.
Autoritratto con la Sapienza, 2000
Carlo Aymonino ha chiuso la propria vita come un cerchio, esattamente dieci anni or sono, scomparendo nella città che lo aveva generato nello stesso mese di luglio di 84 anni prima. Personalità del tutto solare e profondamente romana, nonostante le origini militari piemontesi, Aymonino ha attraversato tutte le fasi dell’architettura e urbanistica italiane del secondo Dopoguerra, bruciando ogni tappa. Se inizialmente aveva coltivato velleità artistiche, guardando con ammirazione alla scuola romana di pittura, finirà per aderire invece a quella di architettura: la morte prematura del padre lo spinse verso gli studi professionali grazie anche all’incoraggiamento di Marcello Piacentini (cugino del padre); appena laureato, Aymonino entrò subito nel gruppo di progettazione del Quartiere Tiburtino (1949-1954) coordinato da Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi.
Di questo quartiere neovernacolare, considerato il manifesto del neorealismo architettonico, Pier Paolo Pasolini ha lasciato una caustica descrizione in Una vita violenta, dove le strade «entravano in curva in mezzo alle case, rosa, rosse, gialle, tutte sbilenche esse pure, con mucchi di balconi e abbaini, e sfilate di parapetti […] storte, di sguincio, […] con delle porte dove ci s’arrivava facendo cinque o sei scalini, e tante balaustre a zig zag che le univano fra loro».
Aymonino farà tesoro di questa esperienza non del tutto positiva, tradendo il neorealismo (il primo di molti altri tradimenti) alla ricerca di una via d’azione meno nostalgica e di respiro più internazionale. All’interno dello studio aperto con il fratello Maurizio e i due fratelli De Rossi, Alessandro e Baldo, Aymonino continua a confrontarsi con il tema delle periferie e dei nuovi quartieri del piano Ina-Casa, specie nel Mezzogiorno, trovando interlocutori stabili nella Puglia dei Vito Laterza, Alfredo Reichlin, Paolo Sylos Labini e della casa editrice Leonardo Da Vinci (poi De Donato) per cui dirige la collana “Problemi della nuova dimensione”: il primo volume si intitola La città territorio (1965) ed è una critica forte all’idea allora in voga di megastruttura, che Jean-Louis Cohen ha poi definito «un forte senso della realtà».
Carlo Aymonino, Sistemazione Marc'Aurelio, disegno, 2 febbraio 2006
Da Lorenzo Lotto, 1998
Parallelamente l’impegno di Aymonino si esprime su “Il Contemporaneo” pur sempre all’interno della linea culturale del Partito Comunista Italiano di cui, insieme con Carlo Melograni che scrive invece su “Rinascita”, diventa una delle voci più autorevoli in materia di architettura e urbanistica.
La vittoria del concorso per il quartiere Spine Bianche a Matera (1955-59) gli offre la possibilità di correggere il tiro rispetto al Tiburtino, organizzando «alloggi e spazi in previsione di una vita futura più completa e armonica, bruciando sia i miti di una architettura spontanea (che nelle nuove condizioni di intervento pianificato non ha più ragione di esistere) sia gli schemi internazionali avulsi dalla storia della città e dei suoi abitanti». Con questo quartiere che nel corso degli anni ha sviluppato una forte identità, Aymonino sviluppa anche una linea d’azione pragmatica, che guarda a modelli edilizi delle socialdemocrazie scandinave.
In seguito realizza a Roma alcune opere come la palazzina di via Arbia o l’intensivo di via Anagni, che da un lato tradiscono il debito verso Mario De Renzi – uno dei professori più amati negli anni universitari – e dall’altro lasciano presagire quello che Manfredo Tafuri definisce «espressionismo addolcito» che caratterizza i progetti per la Biblioteca Nazionale e per il concorso di ampliamento degli uffici della Camera dei Deputati.
La mobilità – anche sul piano sentimentale - di Aymonino si intensifica nei primi anni ’60 e il suo raggio d’azione dunque si amplia, collaborando dapprima con la milanese “Casabella Continuità” diretta da Ernesto Nathan Rogers e poi con l’insegnamento presso lo IUAV di Venezia diretto da Giuseppe Samonà. In entrambi questi straordinari contesti di quegli anni, l’architetto romano ha modo di dialogare con i principali esponenti di una nuova generazione (Costantino Dardi, Vittorio De Feo, Guido Canella, Vittorio Gregotti ecc.) allineatasi secondo il triangolo Milano-Roma-Venezia, unita dall’intensa discussione sul tema città regione lanciata da Giancarlo De Carlo con il Piano intercomunale milanese. Fra tutti, Aymonino, che è forse la massima figura di collegamento dei tre poli, stringe l’amicizia più solida e duratura con Aldo Rossi, che sceglie come assistente a Venezia: insieme danno vita a un originale e in seguito fortunatissimo filone di studi sulla morfologia urbana e la tipologia edilizia che sfociano dapprima in due pubblicazioni parallele pubblicate dalla neonata Marsilio, vale a dire Origini e sviluppo della città moderna (1965) e L’architettura della città (1966), e in seguito nel comune progetto per il quartiere Monte Amiata al Gallaratese (1967-1972). Il quartiere pone un limite all’espansione nord-occidentale di Milano e si articola come un’identità autonoma, un’isola urbana ideologicamente contrapposta all’espansione informale circostante in analogia con le hof socialiste realizzate dall’austromarxismo viennese tra le due guerre, già studiate e pubblicate da Aymonino.
Quartiere Spine Bianche, Matera, 1959
Negli anni Settanta la rifondazione disciplinare che Aymonino e Rossi avevano teorizzato a Venezia e praticato a Milano si espande diventando un movimento derubricato come “Tendenza” che confligge con le ricerche di Bruno Zevi, Leonardo Benevolo, De Carlo e dei gruppi radicali fiorentini Superstudio e Archizoom. La strategia di Aymonino compie dunque un ulteriore salto di scala quando diventa rettore dello IUAV fra il 1974 e il 1979, promuovendo molte ricerche collettive come leader del Gruppo Architettura veneziano (Raffaele Panella, Angelo Villa, Gianni Fabbri, Luciano Semerani, Gianugo Polesello, Giusa Marcialis, Augusto Romano Burelli, Roberto Sordina), pubblicando Il significato delle città (Laterza 1975) che raccoglie tutte le ricerche personali precedenti e soprattutto varando l’istituzione dei dipartimenti che rifondano l’ateneo veneziano, profondamente scosso dalle rivolte dal ’68 in poi.
Le sue qualità organizzative, ma soprattutto la capacità di sintesi e mediazione lo portano a tornare a Roma come assessore al centro storico (1980-1984) nelle giunte a guida PCI di Luigi Petroselli e Ugo Vetere, varando un grande lavoro di censimento e normativo più avanzato di quello impostato da Pier Luigi Cervellati a Bologna, nonché la cura delle grandi aree archeologiche culminato con i progetti per l’area dei Fori imperiali. È però a Pesaro che Aymonino realizza le opere della piena maturità a cavallo degli anni Ottanta, mettendo a frutto tutti gli studi precedenti coadiuvato dal Gruppo Architettura: la continuità amministrativa della città marchigiana impostata da Marcello Stefanini permette infatti la messa in opera di un piano organico sulla periferia (campus scolastico), sul centro storico (edificio sociale di via Mazza) e di interventi a scala territoriale (Centro Benelli) in quello che può essere considerato il canto del cigno dell’indissolubilità tra architettura urbanistica che ha come contraltare possibile solo la vicina e per molti versi opposta città di Urbino, oggetto della cura decennale di De Carlo.
Carlo Aymonino, Campus di Pesaro, 1978
La fase più matura della vita di Aymonino è stata caratterizzata da un distacco dalla professione e a un ritorno al disegno figurativo e allo studio della pittura. Figure desunte dai quadri rinascimentali e manieristi compaiono sempre più numerosi nelle tavole degli ultimi progetti come il Teatro di Avellino, Piazza Mulino a Matera, il nuovo ospedale di Mestre o la ricollocazione del Marco Aurelio nel Giardino Romano del Campidoglio.
Carlo Aymonino, Casina Valadier, 1990
Nonostante la sua centralità professionale, culturale e politica, nonché una certa fama internazionale (è fra i giurati del grande concorso parigino per Les Halles del 1979, partecipa a convegni e seminari americani su invito di Peter Eisenman e Rafael Moneo) l’opera di Carlo Aymonino non è stata molto studiata, rimanendo sempre sullo sfondo degli studi dedicati a Rossi. A parte una monografia di Claudia Conforti del 1980, L’architettura non è un mito, e poche altre pubblicazioni, la sua opera merita senz’altro una nuova rilettura che ricostruisca il contesto di una fase storica che appare lontanissima: quella in cui l’edilizia pubblica e la programmazione urbanistica italiane erano molto più ambiziose e dunque in grado di costruire ad esempio un “dinosauro rosso” come il Gallaratese, talmente straniante oggi (specie se paragonato all’edilizia corrente) da essere scelto come set per i videoclip musicali proprio per la sua inspiegabile diversità. La mostra che si terrà presso la Triennale nel 2021 servirà anche a spiegare tutto questo.
Carlo Aymonino, Pianta in sezione del Gallaratese, 1967-72
Carlo Aymonino, Sezione per il Gallaratese, 1967-72
Carlo Aymonino, Autoritratto, circa 1944
Manuel Orazi lavora per la casa editrice Quodlibet di Macerata ed è docente presso il Dipartimento di Architettura dell'Università di Ferrara. Ha pubblicato, insieme con Yona Friedman,The Dilution of Architecture, a cura di N. Seraj (Zurich, Park Books 2015) e ha curato il volume di Rem Koolhaas, Études sur (ce qui s'appelait autrefois) la ville (Paris, Payot 2017).
Si ringraziano Silvia e Livia Aymonino per le immagini d'archivio.
Crediti
Cover image: Il progetto del Colosso in Roma, disegno 2001