Liberi tutti: arte collettiva?
Riassumendo, il meme, che Lolli definisce l’undicesima arte dopo il fumetto, è un’entità intrinsecamente eterogenea, la cui continua mutazione e diffusione comporta una perenne stratificazione di significato profondo e significato reale, secondo i codici di un’ironia più o meno condivisa. Qualcosa delle immagini che riemergono da foto amatoriali, stock o cartoni animati, stretchate e alterate per accogliere nuovi significati rimanda a quello che Hito Steyerl, artista e teorica dell’arte, denonima poor image: “An illicit fifth-generation bastard of an original image”. La possibilità – o meglio l’esigenza – di manipolare l’immagine, barattandone la qualità con la velocità di diffusione, corrode la distanza tra autore e consumatore: “Users become the editors, critics, translators, and (co-)authors of poor images”.
Un sogno, questo, accarezzato da più di un’avanguardia artistica nel corso del secolo scorso. Come sottolinea Valentina Tanni in Memestetica (uno dei testi di riferimento del panorama italiano per chi voglia approcciare il rapporto tra arte e meme), se si osserva il panorama dal piccolo e isolato castello dell’arte contemporanea, vedere “i comportamenti artistici finalmente calati nella vita quotidiana” è l’apice di un’arte finalmente collettiva, spogliata di ego e di sistema, di tutti e per tutti. Ma è davvero così?