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Triennale Milano
© Estelle Hanania
© Estelle Hanania

Robert Walser, ovvero un elogio della dissolvenza

22 aprile 2022
KLARA: Ma dov’è il Fritz?
PAUL: Oh, sta andando già allo stagno, appena fuori del bosco. Ha detto che…
KLARA: Cos’ha detto ancora?
PAUL: Oh, niente di che. Vuole affogarsi.
Robert Walser, Lo Stagno
Dal 28 al 30 aprile, all’interno del festival FOG di Triennale Milano, la regista franco-austriaca Gisèle Vienne presenta il suo L’Etang, con protagoniste Adèle Haenel (Ritratto della giovane in fiamme) ed Henrietta Wallberg. Si tratta di un dramma familiare tratto dall’omonima opera di Robert Walser (Bienne, 1878 – Herisau, 1956). Lo spettacolo offre l’occasione di vedere in scena uno dei primi lavori dello scrittore elvetico, autore massimamente prolifico ed eclettico che per un soffio non è caduto nell’oblio letterario. Ma, qualora ci si voglia confrontare con l’opera di Walser, bisognerà fare i conti con una di quelle pulsioni tutte umane eppure continuamente ripudiate che è la naturale inclinazione alla dissolvenza. Ma andiamo con ordine.
Una delle prime cose da sapere su Robert Walser è che a lui piaceva spostarsi. Fare una topografia della sua vita è complesso – e forse neppure così interessante come può sembrare – ma ci basti sapere che è stato a Zurigo, Berna, Berlino e altre località germanofone. Non sarebbe neppure corretto scrivere una sua biografia a tappe, come fosse una gara ciclistica o un percorso di crescita, perché Walser, durante la sua vita, si spostava soltanto. Si muoveva, era dinamicità allo stato puro – e non c’era alcuna, neppure recondita o inconscia, volontà di fermarsi. Non faceva tappa qui, o là, no: si muoveva da a a b rendendo già quel luogo, b, obsoleto, superato, traslato in altro, più lontano, o semplicemente diverso. L’hanno già fatto, ma ripetiamo questa facile analogia con l’opera La passeggiata: ecco, a mo’ di sunto di una vita, di un carattere, Walser camminava, essenza dell’umano nomadismo che ci accomuna tutti sin dalla nostra ancestrale comparsa.

“Alloggiava dappertutto e in nessun luogo. Non aveva un suolo natìo e nemmeno, quindi, diritto di cittadinanza. Priva di felicità, di amore, di patria, di umana gioia, tale era la sua vita. […] mi sembrava pure che dovesse vivere eternamente, per essere eternamente non vivo.”
Robert Walser © New Directions Books
Robert Walser © New Directions Books
Queste parole si riferiscono, nella Passeggiata, al gigante Tomzack, uno dei tanti doppi di Walser che lui stesso incontra sulla strada. Parole che si addicono perfettamente alla sua condizione di moto perpetuo. Nelle sue tante peregrinazioni in giro per il mondo, finì anche in manicomio, a Waldau, nel 1929. Ce lo portò la sorella Lisa. Non poteva fare altrimenti: le allucinazioni lo assalivano con foga invisibile. Si potrebbe dire che il tanto rifuggire il mondo si concluse alla clinica per un eccesso di mondo – immaginario, malato, schizofrenico – che lo invase a un certo punto della sua vita. Gli fu diagnosticata la schizofrenia (non si parlava di doppi, poco sopra?), e lui fu quasi rassicurato dalla notizia che la continua sofferenza che l’aveva accompagnato fino a lì, ora, assumeva un significato. Del resto, nello Stagno, la madre di Fritz pone al figlio la domanda cui Walser sembra trovare ora risposta: “Perché soffrire inutilmente?”. Ai quattro anni di Waldau risalgono i microgrammi, l’opera che ancora oggi più suscita interesse nei confronti di Robert Walser. Si tratta di oltre cinquecento pagine scritte con una grafia microscopica in cui sono raccolti romanzi e opere poetiche e teatrali. Ci si avvicina a quella pulsione di cui si parlava  all’inizio. Ma occorre ancora una piccola premessa.
Si diceva che Gisèle Vienne porterà sul palco Lo Stagno di Walser, e dunque si partirà  da qui per arrivare al punto. È un’opera breve, brevissima, a dirla tutta, che racconta di un bambino, Fritz, che non si sente amato dalla madre, e inscena il proprio suicidio. Finge di affogarsi in uno stagno (“Fino a oggi nessuno ha mai pianto per me. Così forse si accorgeranno che anch’io conto qualche cosa”, dice Fritz recuperando il cappello dall’acqua), il fratello Paul e la sorella Klara vanno a denunciare l’accaduto alla madre, che si dispera per la morte del figlio. Il dramma dura appena un pomeriggio, perché il finto suicida torna a casa per l’ora di cena, e l’ultima parte dell’opera è dedicata alle scuse della madre per non averlo amato abbastanza. E questo è quanto.
Ph. Mathilde Darel © L'Etang
Ph. Mathilde Darel © L'Etang
Una delle capacità di Walser è di rendere un testo – qualsiasi testo – dannatamente artificiale. Nella  Passeggiata, ad esempio, una trentina di righe è destinata alla descrizione che il protagonista-narratore imbastisce per chiedere a un libraio di mostrargli il libro più venduto . Viene spontaneo domandarsi, a una prima lettura poco attenta e superficiale, dove stiano l’emozione, il pathos, il dramma? Dove stia, in altre parole, la vita? Inizialmente  si è stati tentati di rispondere che la vita, in Walser, non sta proprio da nessuna parte. E invece, leggendo e rileggendo le sue opere, facendole parlare tra loro, si scopre che la bellezza (parlo di quella spontanea, vitale, perché di quella letteraria non si discute) è accoccolata tra l’abbondanza gratuita di parole, espressioni, costruzioni sintattiche complesse che riempiono le pagine walseriane. Insomma, è come se Walser avesse preso tutta la vita di cui era intriso, la sofferenza che provava in ogni momento della propria esistenza, l’entusiasmo di cui era pervaso da bambino, e li avesse dissolti nei suoi libri. Un po’ come si fa con lo zucchero nel caffè.
Qual è dunque il compito del lettore?? Credo che Walser risponderebbe: nessuno. Ancora, ci si chiede , perché soffrire inutilmente? Perché andare a cercare qualcosa che per definizione scuote e inquieta? Lo si lasci dov’è. Casomai, si cerchi di dissolversi allo stesso modo. Ecco, L’Étang ci mostra, con una violenza inaudita, il progetto di Walser, che da questo momento  in avanti porterà alle estreme conseguenze, fino alla schizofrenia: la sua è una metafisica al contrario, un dis-farsi del mondo, dell’ente, nel nulla, una volontà di non-vita. Si badi bene, non di morte. Fritz non si butta nello stagno per davvero, non muore affogato. Semplicemente, passa il pomeriggio a vivere come se fosse morto. E cosa fa, questo bambino, per passare il tempo nell’attesa di svelare l’inganno? “Ecco! E adesso me ne vado a passeggio come un inglese vanesio nel bosco qua vicino”.
Ph. Estelle Hanania © L'Etang
Ph. Estelle Hanania © L'Etang
Alla stasi delle cose, all’immobilità del mondo, Walser oppone il movimento. Ma muoversi – ci insegna Fritz – significa non essere. Non alla maniera degli enti, quantomeno. Significa essere infinitamente, ripetersi negli altri, anzi non fare più distinzione tra l’io e l’altro, ma essere un tutto confuso, magmatico. L’essere di Walser punta, in ogni sua opera, alla dissolvenza nel mondo. A essere oggetto tra gli oggetti, ma sempre diverso – tutto si modifica, verrebbe da dire. E allora si cercherà di capire  perché Walser adotti un linguaggio così artificioso, o perché i suoi scritti non colpiscano con la violenza alla quale il presente ci ha abituati. Perché, per Walser, l’importante è nascondersi e nascondere. Essere irrintracciabile. Come lo zucchero nel caffè. Ed essere inconsistente, come la cenere.

“Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no.”
Bibliografia essenziale
R. Walser, La passeggiata, Adelphi, Milano 1976
R. Walser, Lo stagno, in Commedia, Adelphi, Milano 2018
W.G. Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, Milano 2015