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Triennale Milano
Ph. Lorenza Daverio, Ginevra Piccinin © Triennale Milano
Ph. Lorenza Daverio, Ginevra Piccinin © Triennale Milano

Due bagnanti in Triennale: intervista a Clédat & Petitpierre

27 aprile 2022
In occasione della quinta edizione di FOG, il 2 e il 3 aprile 2022 il visionario duo artistico francese Clédat & Petitpierre ha portato in Triennale una performance bizzarra (Les baigneurs), incentrata su uno dei soggetti per eccellenza della pittura moderna: quello dei bagnanti.
Video: Stefano Conca Bonizzoni © Triennale Milano
Abbiamo avuto il piacere di intervistare questa coppia artistica inseparabile, composta da Yvan Clédat e Coco Petitpierre. I due – incontratisi nel 1986 – sono scultori, performer e registi, e attraverso i loro lavori mettono in discussione al contempo lo spazio espositivo del museo e quello performativo del teatro. Le loro opere – creazioni proteiformi e creative in cui i corpi dei due artisti sono continuamente messi in gioco – sono presentate in centri d’arte, musei, festival e teatri, sia in Francia che all’estero.
© Lebeau & FAR WEST
© Lebeau & FAR WEST
Come è nato il progetto Les baigneurs e perché avete scelto di ispirarvi proprio al mito dei bagnanti?
Il progetto è il risultato di una commissione da parte di un museo (che si trova sulle rive del Lago di Ginevra) in occasione di una mostra estiva dedicata al tema del “bagno”. La nostra risposta a questa proposta è stata concettualmente molto semplice, per non dire quasi stupida. Ma come per tutte le opere in cui siamo entrambi fisicamente coinvolti il soggetto ha poca importanza. Il vero soggetto è l'amore: cosa vuol dire essere in due, insieme, di fronte all'immensità di ciò che ci circonda? Quanto è fragile tutto ciò, condannato alla catastrofe della scomparsa dell'altro? Le nostre bagnanti in tulle hanno gioie semplici: il loro piccolo mondo si riduce a due asciugamani blu come il mare e a un palloncino giallo come il Sole. Si mettono in posa, guardano il Sole in cielo, muovono un po' i loro asciugamani, si sdraiano di nuovo, fanno sport (molto poco), si baciano (spesso).
Quali sono i vostri “bagnanti” di riferimento e qual è il vostro rapporto con l'arte figurativa? Quali autori vi hanno influenzato di più?
Il nostro  riferimento principale è il quadro Baigneuses et baigneurs di Pablo Picasso, ma lo sono anche i personaggi di Fernand Léger (le loro rotondità, i motivi a righe). Abbiamo l'abitudine di scegliere soggetti che non sono realmente tali. Non abbiamo niente da dire su questo “bagno” in particolare, così come non abbiamo niente da dire sulla decorazione del ceppo di Natale di Zéro degré o sull'orologio a cucù svizzero di Helvet Underground. Questa scelta è chiaramente un modo di liberarsi del significato per concentrarsi su ciò che è al centro del nostro lavoro: il rapporto tra il vivente e lo scultoreo.
Nell'era del digitale, del metaverso e della realtà virtuale, quali sono lo specifico e la forza della performance?
Il bello della vita è che è fondamentalmente irriducibile e insostituibile. Almeno per il momento. E anche se la tecnologia modifica il nostro modo di vivere – plasmando la percezione dello spazio in cui viviamo – ci sembra che non cambi nulla rispetto a ciò che possiamo sperimentare in presenza dell'altro o in relazione al gioco tra la scena e il pubblico. Scomparire nei nostri costumi non significa in alcun modo cancellare l'essere umano, anzi: è esattamente il contrario. È un atto di celebrazione attraverso quel potente riflesso animistico che ci spinge a creare significato, a dare sentimenti a qualsiasi oggetto in movimento.

"Il vero soggetto è l'amore: cosa vuol dire essere in due, insieme, di fronte all'immensità di ciò che ci circonda? Quanto è fragile tutto ciò, condannato alla catastrofe della scomparsa dell'altro?"
Ph. Lorenza Daverio, Ginevra Piccinin © Triennale Milano
Ph. Lorenza Daverio, Ginevra Piccinin © Triennale Milano
La relazione e l'interazione con gli spazi e il pubblico sono centrali in questo tipo di lavoro. Come vi approcciate a queste dimensioni?
Creiamo performance per spazi museali e pubblici, ma realizziamo anche spettacoli per il palcoscenico. Insomma, ogni spazio condiziona a suo modo la percezione del lavoro. Lo spazio pubblico, per esempio, è spesso ostile: troppo rumore, troppa agitazione, troppa dispersione, troppa convivenza. La preziosità dei nostri oggetti, la loro precisione, la loro “nitidezza” (così come la temporalità delle performance), sono anche un modo per sfuggire a questi spazi complicati. Nello spazio pubblico ci preoccupiamo spesso di rallentare le azioni e di limitare le informazioni trasmesse. Cerchiamo di creare un effetto di contrasto molto leggero, come se fossimo un'immagine, sfocando tutto ciò che ci circonda. La scatola nera del teatro – con il suo rituale di presentazione e un pubblico seduto e prigioniero che ha pagato per vedere un'opera – è un'esperienza radicalmente diversa. Genera un'aspettativa da parte del pubblico, a cui si sceglie di rispondere o meno, ma che non si può assolutamente ignorare.
Per due artisti poliedrici e multidisciplinari come voi, qual è il punto di contatto tra scultura, teatro e performance?
Per noi tutto è collegato, e al contempo ogni linguaggio o mezzo ha dei requisiti specifici. Il nostro legame con lo scultoreo è molto forte, ma lo è altrettanto quello che ci lega al vivente. Facciamo tutto da soli, compresi gli oggetti per il palco. Dobbiamo assolutamente amare questi oggetti (compresi i costumi ovviamente) indipendentemente dal loro scopo. Ci piace padroneggiare le tecniche di fabbricazione e il tempo che ci dedichiamo è spesso irragionevole, soprattutto quando si tratta di pezzi di scena. Ma ci affidiamo davvero a questa autonomia plastica degli oggetti che creiamo per inventare le azioni delle nostre performance o per concepire la drammaturgia dei nostri spettacoli. Proprio come i corpi dei performer, questi oggetti hanno cose da dirci. Cose che devono essere ascoltate anche se sono silenziose. Ed è a questo “avanti e indietro” tra il vivente e lo scultoreo che sentiamo di appartenere.